di Massimo Lechi.
Unico titolo italiano in concorso al terzo Valletta Film Festival, Sicilian Ghost Story è un film in grado di colpire, dividere e far discutere. Già presentata con successo – soprattutto presso la stampa internazionale – alla Semaine de la Critique di Cannes 2017, l’opera seconda di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ricostruisce con assoluta libertà immaginifica la tragedia di Giuseppe Di Matteo, il figlio di un collaboratore di giustizia che venne rapito per vendetta da Cosa Nostra e, dopo una lunga prigionia, sciolto nell’acido nel gennaio 1996.
L’episodio, una delle pagine più terribili della storia della mafia siciliana, viene qui trasfigurato in chiave fiabesca, a partire dalle suggestioni del racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola. Al centro di un’inedita Sicilia oscura e inquietante, la figura di Luna (Julia Jedlikowska), adolescente innamorata del compagno di classe Giuseppe (Gaetano Fernandez), il quale un giorno scompare nel nulla lasciandola in preda a un’inestinguibile sete di verità.
Ospiti del festival, i due registi palermitani – entrambi visiting professors all’Università di Malta – hanno parlato con FilmDOC del senso profondo delle scelte stilistiche alla base di Sicilian Ghost Story, e di come la morte del piccolo Di Matteo abbia influenzato il loro percorso artistico e umano.
Il tema della cattività lega Sicilian Ghost Story e Salvo.
AP: Sì, è una della cose che i due film hanno in comune: il senso di una prigionia e il fatto che i personaggi siano tutti in qualche modo prigionieri. Ovviamente Giuseppe lo è in senso letterale, ma anche nella casa di Luna ci sono elementi che rimandano a una situazione di cattività. Per noi il tema della libertà è quello che ci sta più a cuore. Quindi il rapporto tra libertà e prigionia, il costo della libertà, che cosa significa difendere la propria libertà e a che prezzo. E il rendersi conto di essere prigionieri, oppure il far finta di niente. In Salvo questo era molto presente.
Il collegamento, nei vostri film, tra la Sicilia (come spazio) e la prigionia (come condizione) è una forzatura interpretativa?
FG: No, non è una forzatura… E’ il grado zero. Essendo cresciuti negli anni Ottanta e Novanta palermitani, dove abbiamo vissuto e respirato un’aria che aveva a che fare più con la morte che con la prigionia, quella è la base sulla quale abbiamo cominciato a costruire e sviluppare la nostra riflessione narrativa e tematica. Poi la prigionia è naturalmente anche la solitudine in cui si rischia di ritrovarsi e di smarrire quelle che sono le caratteristiche grazie alle quali un essere umano è tale oppure no. E allora il concetto di libertà e la necessità, per conquistarla e difenderla, di una lotta che non può essere solitaria, che nasce sempre da un incontro difficile, inaspettato, ma comunque possibile, e al quale bisogna aprirsi.
Nel vostro caso il mantenere la libertà che significato ha avuto? Lasciare la Sicilia?
FG: Sicuramente. Per me la libertà è stata un impulso ad andare via, ad allontanarmi da un contesto che mi provocava molto risentimento.
AP: Sì, anche per me è stato così. La libertà si è espressa nel rapporto critico con Palermo e la Sicilia, nel senso che abbiamo scelto di aprire gli occhi. E questo ha comportato tutta una serie di conseguenze: se continuavi a vivere là diventavi un resistente, dovevi stare molto attento a cosa facevi, a chi frequentavi, al da dove venivano le tue fonti di guadagno. Il contesto mafioso era estremamente pervasivo, anche da un punto di vista economico. Conquistarti la tua libertà, che è prima di tutto morale, significa compiere scelte che non sono indolori. E significa soffrirne. Ora la città è cambiata…
Anche se il sindaco è sempre lo stesso…
AP: (ride) Mah, diciamo che il sindaco – come sindaco, al di là della sua dimensione politica – è stata una delle poche cose positive che abbiamo avuto negli ultimi anni. Lui ha sempre cercato di mantenere aperta una dimensione culturale, e indubbiamente adesso è meglio essere Palermo capitale della cultura che Palermo capitale della mafia.
Guardando indietro però, la morte di Giuseppe Di Matteo è l’evento che vi ha fatto allontanare dalla Sicilia, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Superare il trauma, per voi, in quanto artisti, ha voluto dire appropriarvi di quella storia.
FG: Quanto è successo è stato il colpo finale. Un colpo finale che mi ha completamente disconnesso dai miei affetti palermitani, dalla mia vita palermitana, dai miei studi, da tutto. In qualche modo sono rimasto a lungo schiavo di quella rabbia. La possibilità di affrancarsi dalla schiavitù è nata proprio nella nostra relazione, nel momento in cui abbiamo deciso di assumerci una maggiore responsabilità, non solo più come scrittori di sceneggiature per schifezze televisive, ma tentando di trasformare la nostra esperienza individuale, anche di dolore, in qualcosa di raccontabile. A quel punto si è aperta la possibilità di rimettere mano a quello che per noi era per antonomasia lo scandalo della disumanità siciliana: la prigionia e la soppressione di Giuseppe Di Matteo.
Questo è il punto problematico. Il modo “altro” in cui avete raccontato la storia di Giuseppe Di Matteo vi ha fatto ricevere critiche dure, specie dalla stampa italiana.
FG: Guarda, noi siamo partiti da cosa è mancato a questo bambino nella parte finale della sua vita. Pensare di raccontare dritto per dritto l’esperienza di Giuseppe Di Matteo e dei 779 giorni della sua prigionia per noi è una cosa impossibile. Nessuno si può arrogare questo diritto, perché nessuno ha vissuto quell’esperienza, che non ci è mediata dalle testimonianze.
E’ esattamente quello che fa molto spesso il cinema di cosiddetto impegno civile.
FG: E che noi rifiutiamo. Aprire la porta di un campo di concentramento è un’operazione che non ci si può permettere. Lì deve entrare qualcos’altro. Cos’è mancato a questo bambino? E’ mancato fondamentalmente amore. Quindi raccontiamo una storia che esalta l’amore. Ma cos’è l’amore? Per noi è qualcosa che può preservare, se non la tua vita, la tua umanità. Puoi salvare la tua umanità grazie all’amore. E per fare questo hai bisogno di una relazione che racconti la profondità, l’indistruttibilità di questa connessione. Allora creiamo un personaggio che non esiste, e anche il ragazzino a cui ci ispiriamo…
Lo trasfigurate.
FG: Lo trasfiguri perché non è di Giuseppe Di Matteo che si sta parlando. Stiamo parlando di come riportare alla luce della vita – dell’amore – una figura che le coscienze hanno sepolto. Dovevamo quindi creare un’esperienza che fosse innanzitutto emotiva, per il pubblico. Un’esperienza profonda di dolore e di trasformazione. Non cambiamo il destino del bambino all’interno della nostra storia, ma creiamo l’unico sentimento che si può opporre alla devastazione della disumanità. Basta.
AP: Come tu dici è una trasfigurazione fiabesca, della storia e del personaggio di Giuseppe. Intenzionalmente non viene mai pronunciato nessun cognome. E anche nel racconto di Marco Mancassola, a cui ci siamo ispirati, i personaggi diventano figure di una favola – non a caso lui usa i soprannomi che erano quelli dei mafiosi. Checché se ne dica, non si può raccontare questa storia che così: attraverso un atto d’amore, attraverso una dimensione che trasfigura in qualche cosa che va oltre. Altrimenti è una mera ripetizione dell’orrore.
Quindi nel realismo c’è un rischio paradossale di banalizzare e spettacolarizzare? Mi riferisco in particolare alle figure dei mafiosi.
FG: Sì, perché cosa andresti a raccontare? Dovresti dare ad alcune delle persone coinvolte nel fatto reale una dimensione da personaggio, mentre la nostra favola le rende delle funzioni. Nel film nessuno acquisisce la strutturazione di un personaggio. Sono delle funzioni, degli orchi, caratterizzati a volte da piccoli tratti fisiognomici che li differenziano. Nel racconto che ultimamente si fa della mafia o c’è la nostalgia o c’è l’epicizzazione, e questo deve cessare. Nel nostro film la mafia emerge per quello che è: il nulla, un nulla che propaga il nulla. E la sua violenza è una violenza che è forma di un’ottusità, di un’ignoranza, e non di un pensiero. Con la trasfigurazione cerchiamo di opporre l’unica arma opponibile a quel tipo di devastazione morale, civile e umana.
AP: Ci dobbiamo anche mettere d’accordo sul significato delle parole. Che cos’è il realismo? Da un punto di vista cinematografico è semplicemente una questione di stile, di modalità della narrazione. Punto. Realismo non significa una maggiore adesione o vicinanza alla realtà, a come veramente sono accaduti gli eventi. Perché il nostro non è realismo? Perché mettiamo una storia d’amore, perché mettiamo un fantasma, e tutto questo non attiene al reale… Ma che cosa pure non attiene al reale? L’agiografia, che è la cifra delle molte narrazioni di fiction di mafia – apparentemente realistiche.
Verosimili.
AP: Ecco: verosimili. Fondamentalmente queste fiction sono operazioni di agiografia. E nell’agiografia, nel sentimentalismo, nel kitsch non c’è il reale. C’è solo qualcosa che gli rassomiglia, oppure che siamo abituati a pensare che gli rassomigli. Ma non è il reale. Così come anche un film bello e celebrato come I cento passi – il film che più ha avuto impatto sulle coscienze italiane – non è il reale. La percezione che tu hai, alla fine, è comunque alterata da uno stile e da scelte precise.
Attraverso Sicilian Ghost Story sembra che abbiate voluto chiudere i conti con il passato e con la mafia. E’ così?
AP: Sicuramente con la mafia e la Sicilia degli anni Novanta. Il nostro prossimo film non sarà su quel periodo, e quasi certamente non sarà di argomento mafioso. Anche da un punto di vista personale si chiude un ciclo. Adesso ci sembra di poter tornare a Palermo e di poter mostrare questo film a dei ragazzi che hanno una proiezione nel futuro.
FG: La riflessione che era sia in Rita che in Salvo secondo noi trova qui la sua maturità, la sua chiarezza. Credo che saranno altri i temi che esploreremo.
E ci arriverete pacificati? O almeno con la sensazione di aver messo alle spalle una volta per tutte una pagina dolorosa della vostra vita?
FG: Sì, per quanto mi riguarda sì. La chiave di esplorazione che ci hanno permesso questi lavori mi porta a una forma di relazione diversa con questo luogo, senza la negatività e il nichilismo del risentimento. Anche perché il cortometraggio e i due film ci hanno fatto rincontrare in Sicilia e a Palermo delle persone della nostra vita che, al contrario di noi, non sono andate via, ma sono diventate dei resistenti sul territorio, facendo scelte diverse dalle nostre – forse più coraggiose, meno egoistiche. La solitudine del risentimento non ci appartiene più.
AP: Il rapporto con la Sicilia rimane un rapporto di natura critica. La Sicilia è cambiata nel senso che non è più quella in cui il livello militare della mafia aveva un impatto così devastante sulle vite di tutti. Viviamo un eterno secondo tempo, con una fortissima sensazione di vuoto, di attesa… Però rispetto a questa realtà non facile le nostre antenne sono sempre molto forti. E abbiamo se non altro la voglia di tornarci a vivere, dopo vent’anni. Pensiamo che ne valga la pena.