di Massimo Lechi.
La quindicesima edizione di Cyprus Film Days, l’unica manifestazione cinematografica greco-cipriota interamente dedicata al lungometraggio di finzione, si è tenuta con successo a Limassol e Nicosia. Sostenuto dal Ministero dell’Educazione e della Cultura e diretto da un comitato artistico composto dalla filmmaker Tonia Mishiali e da Costas Constandinides e Marios Stylianou, il festival (27 aprile – 6 maggio) si è riconfermato tanto un essenziale punto d’incontro per la comunità artistica locale quanto un’importante occasione per il pubblico dell’isola per scoprire alcuni dei titoli più apprezzati degli ultimi mesi.
A Phil Méheux, ospite d’onore, è stata affidata la presidenza della giuria internazionale. Il direttore della fotografia britannico, ben noto nell’industria per la lunga e proficua collaborazione con Martin Campbell e per aver curato le luci di film di grande successo come Quel lungo venerdì santo (1980), Quarto protocollo (1987), GoldenEye (1995), La maschera di Zorro (1998), Entrapment (1999) e Casino Royale (2006), ha inoltre tenuto una masterclass dal titolo 50 Years Behind the Camera, durante la quale ha svelato trucchi e curiosità di una carriera lunghissima, iniziata alla BBC e proseguita, fino a oggi, ai vertici del cinema hollywoodiano.
L’intervista che segue, tra salti e accelerazioni, ripercorre cinque intensi decenni di cinema.
Tieni spesso conferenze come 50 Years Behind the Camera? Pensi siano importanti per chi inizia a lavorare nel tuo campo?
Non l’ho fatto spesso, almeno fino a oggi. Quest’anno sono venute tre o quattro offerte, tutte insieme, molto più che in passato….Ma devo dire che mi diverte, perché mi dà l’opportunità di rivedere il materiale. Penso sia una buona cosa trasmettere ciò che sai. Gli esordienti là fuori ovviamente non hanno avuto le tue esperienze, non sono stati nei posti in cui sei stato e non hanno incontrato le cose che tu hai incontrato. Molte volte hanno le basi, ma sei comunque in grado di rivelare loro dei dettagli importanti.
In occasioni come queste, hai la sensazione di dare consigli o di contribuire anche alla preservazione di un’eredità più grande?
Questo è un punto interessante. Non ho mai pensato alla questione dell’eredità… Beh, oggi tutto è cambiato: il digitale ha reso più semplice girare un film per tutti. Prima serviva grande competenza tecnica. Ora invece ciò di cui hai bisogno è una buona idea, una buona storia. Chiunque può prendere in mano una camera, premere il pulsante e creare un’immagine. Quello che cerco di spiegare nelle masterclass è che è importante aggiungere qualcosa di proprio, che questo lavoro ha un elemento artistico e non è dunque solo riprendere ciò che si trova davanti all’obiettivo. Il fatto che si possa girare con luci molto basse non deve impedire di illuminare il film – e per illuminare intendo scegliere la luce.
Il fatto che oggi per un direttore della fotografia non ci siano quasi più problemi tecnici, perché tutto può essere risolto facilmente, significa che a contare è soprattutto il gusto?
L’assenza di difficoltà tecniche ti lascia alle prese con l’aspetto creativo. In passato l’80% del mio lavoro era programmazione e meccanica, e solo il resto era fotografia.
Andiamo indietro, ai tuoi inizi. Tu non vieni da una famiglia legata all’arte…
No, per niente.
Com’è nata la tua passione per il cinema?
Tutto ciò che ricordo è di essere andato a vedere Bambi con mia madre e mio fratello maggiore, a uno spettacolo pomeridiano – all’epoca non c’era la televisione. Non avevo visto niente come il cinema prima di allora: lo schermo gigantesco, i colori, le luci, le emozioni, i suoni. Verso i dieci o undici anni iniziai a capire che il cinema non era realtà, ma qualcosa di costruito, di artificiale. Avevo libri e riviste che mi mostravano come si facevano i film.
Avevi una macchina fotografica?
Non fino ai quattordici anni. Me la comprarono i miei genitori: una macchina molto rudimentale. Mi resi presto conto che si poteva avere di meglio, così non appena iniziai a lavorare misi da parte dei soldi e comprai una Rolleiflex. Imparai molto sull’esposizione, sulla composizione, sulla luce, la profondità e il fuoco. Poi con tre amici – tra cui due gemelli, che però non si assomigliavano affatto – cominciammo ad affittare film in 16mm e a guardarli ogni domenica. Prima film hollywoodiani – musical, Il cavaliere della valle solitaria e Sfida infernale – e poi film stranieri. Questo ci convinse che avremmo potuto provare a fare cinema anche noi. Scrivemmo una sceneggiatura, comprammo a rate settimanali una Bolex a pellicola in bianco e nero. Il nostro primo film venne compromesso da una serie di problemi tecnici, ma mi insegnò parecchie cose.
Come sei entrato nell’industria?
Finita la scuola decisi di non andare all’università. Un giorno mia madre mi accompagnò a un colloquio all’ufficio di impiego giovanile di Fleet Street, dove mi venne offerto un posto “ideale” come commesso ai London Docks. “Se non vuoi farlo, non lo fare”, disse lei. Poco dopo ci ritrovammo in un tea shop dove vidi un annuncio sul giornale: compagnia cinematografica cerca commesso di terzo livello.
E da lì è iniziato il tuo percorso di avvicinamento al set, e alla BBC, dove sei entrato come proiezionista. Nel 1965 giri Alice nel paese delle meraviglie di Jonathan Miller, come assistente di Dick Bush. Quella era l’Età dell’Oro della televisione inglese.
Sì, è l’espressione giusta. Non c’erano restrizioni di budget: se la BBC diceva di voler fare qualcosa, la faceva. Su Alice nel paese delle meraviglie a un certo punto avevamo duecentocinquanta attori, tutti in costumi vittoriani…
In quegli anni hai inoltre lavorato come operatore per i teledrammi di Play for Today, che è stata una palestra per molti talenti divenuti celebri in seguito.
Il primo che ho fatto era a tutti gli effetti un documentario, solo con una sceneggiatura scritta: Just Another Saturday di John Mackenzie.
Avevate dei limiti, tecniche o estetiche che non potevate usare?
Non penso ci fossero delle barriere. Era tutto più creativo e artistico: non dovevamo far soldi. Alla BBC a volte non apprezzavano alcune delle cose che venivano girate, come Cathy Come Home e altri lavori di Ken Loach, ma li producevano comunque.
Nel 1977 sei diventato un freelance e hai girato il tuo primo grande film, Black Joy di Anthony Simmons, in concorso a Cannes.
Beh, non era una grande produzione, era un film low-budget. Il regista, che aveva visto un mio Play for Today in televisione, mi chiamò dicendomi che stava cercando un operatore in grado di lavorare con la macchina a mano e luce naturale. Fu anche il mio primo incontro con Martin Campbell, che era il line producer.
Scum di Alan Clarke, del 1979, fu un altro titolo importante, e controverso.
Al momento non puoi mai sapere… Avrebbe potuto essere un disastro. E’ diventato un cult negli anni.
Come il tuo film successivo: Quel lungo venerdì santo. E’ uno dei tuoi lavori migliori, non trovi?
A livello di fotografia avrei potuto fare meglio – ero ancora un novizio. Ma il film mi piace. Mi piace molto.
Il lunghissimo primo piano di Bob Hoskins, è forse una delle scene più famose del cinema britannico di quegli anni. Come l’avete girata?
La girammo al Savoy, che non aveva mai concesso a nessuno di fare riprese – e non penso che l’abbia più concesso dopo di allora. Prima con me seduto al posto di Bob Hoskins, e Pierce Brosnan che mi guardava. Poi scendemmo, e spostai la macchina da presa sul sedile del passeggero, mentre il regista guidava. L’unica via praticabile per illuminare la scena mi sembrò quella di usare una lampadina da 101 che trovai nella presa dell’accendino. Per tutto il tempo attraversammo lo Strand, avanti e indietro, con John Mackenzie che dava indicazioni a Bob.
Quel lungo venerdì santo ha segnato una svolta nella tua carriera.
Non posso dire che dopo il film il telefono si sia staccato dal muro a furia di suonare, però sicuramente nacque molto interesse nei miei confronti. Mi venne offerta la mia prima produzione hollywoodiana, dalla 20th Century Fox. Ma, in generale, a chiamarmi erano sempre persone che già conoscevo.
Sì, infatti una cosa che si nota subito, guardando la tua filmografia, è il fatto che tu abbia lavorato con gli stessi registi per decenni. Con Martin Campbell, per esempio…
Nove film insieme in vent’anni.
Non succede spesso, a Hollywood.
Beh, Janusz Kaminski lavora a tutti i film di Spielberg… Comunque, sì, non è troppo comune. E io tendevo a sgomberare il campo per Martin. Se mi diceva che c’era qualcosa in arrivo, facevo in modo di non accettare cose che potessero interferire. A mio danno, forse: avrei potuto accettare qualche altro film qui e là… Ma dalle volte in cui ho lavorato con altri, non è mai venuto fuori nulla di paragonabile. Non ho mai trovato nessuno come Martin, in termini di lealtà e continuità.
E’ interessante come tu sia passato dai film amatoriali alla BBC, e poi da piccole produzioni inglesi a blockbuster americani milionari.
Non è stato però un grande salto. Piuttosto una crescita progressiva: ogni film era leggermente più grande del precedente… Ma se sei in grado di illuminare qualsiasi cosa, non importano le dimensioni e non importa di che tipo di film si tratti. Per me non fa differenza illuminare te o Brad Pitt. Con una grossa produzione è solo questione di attrezzature, di quante macchine da presa e lenti hai bisogno in un dato giorno, o della grandezza della troupe – cose che si devono sapere in anticipo.
Però non sei più tornato agli inizi, alle piccole produzioni.
Beh, mi piacerebbe farlo, ma nessuno mi ha più proposto nulla di interessante… A Hollywood, poi, si finisce sempre un po’ incastrati in un ruolo.
Anche con John Mackenzie hai collaborato a lungo. Dopo Quel lungo venerdì santo avete fatto insieme Il console onorario e Quarto protocollo, entrambi con Michael Caine. Furono successi, all’epoca.
Quarto protocollo sì, mentre Il console onorario non molto… Di fatto la casa di produzione lo distrusse. Ovviamente nessuno aveva letto la sceneggiatura, perciò quando videro il girato lo odiarono e decisero di farlo a pezzi. Essendo tratto da Graham Greene, doveva essere un lavoro molto più complesso – sul cattolicesimo e cose del genere.
Dev’essere una vera sofferenza per te quando un film viene massacrato, quando scene che hai girato – e a cui magari tenevi – scompaiono del tutto dello schermo.
Prima ancora dello studio, è il montatore a togliere tanto materiale… Questo mi ha insegnato a fare in modo che le mie inquadrature siano sempre utili, sempre necessarie. Un’immagine che non fa avanzare la storia è la prima a essere tagliata via in caso di problemi con il metraggio. Ne sono diventato drammaticamente consapevole quando ho fatto The Trial con David Jones, su sceneggiatura di Harold Pinter. Pinter aveva un contratto in base al quale non poteva essere cambiata una sola parola senza il suo permesso, mentre Jones non era autorizzato a fare un film che durasse più di due ore… Durante le riprese, dissi a Jones che avevo la sensazione che il film stesse diventando lunghissimo – intorno alle due ore e quarantacinque. “No no no”, mi disse, “andrà tutto bene, staremo dentro le due ore.” Poi lo montarono: due ore e quarantacinque. Jones si trovò a dover tagliare quarantacinque minuti, ovvero tre settimane di lavoro. Ma per contratto non si potevano toccare i dialoghi, perciò sparirono tutti i movimenti di macchina, tutte le inquadrature d’atmosfera… Fu demoralizzante. Non l’ho ancora superata.
Parliamo del tuo approccio ai film. Immagino che tu “veda” i film, mentre leggi una sceneggiatura.
Sì, mentre leggo vedo il film, vedo i movimenti e questo genere di cose. E di solito sapere che un determinato attore intrepreta una parte mi aiuta a visualizzare… Ma è importante il modo in cui lo vede il regista: è lui il direttore d’orchestra.
Ti è capitato spesso di non essere in sintonia con il regista?
No, non è capitato spesso. Martin, per esempio, ed è uno dei motivi per cui mi piace lavorare con lui, mi lascia fare ciò che secondo me è giusto per la sceneggiatura. Quando mi propose di girare Casino Royale gli chiesi se la produzione avrebbe interferito: avevo qualche timore, perché a mio parere gli ultimi tre film non erano stati fotografati bene – troppo piatti e quasi cartolineschi. Ci furono lunghe conversazioni, ma Broccoli e Wilson dissero che era il nostro film e che avremmo dovuto fare quello che volevamo. Questo mi fece sentire molto meglio.
Tu e Martin Campbell siete stati chiamati ben due volte a resuscitare James Bond.
Sì, ma io ho avuto un ruolo marginale in tutto questo. Loro hanno assunto Martin e lui ha assunto me. Mi sarebbe piaciuto farne di più, ma non ha voluto: dopo GoldenEye mi disse di aver rifiutato il Bond successivo perché pensava di aver usato tutti i suoi trucchi.
Lo stesso valeva per te?
Oh, no… Ho ancora parecchi assi nella manica! (ride)
Immagino sia divertente, girare un James Bond.
Non proprio divertente: è comunque lavoro. La gente mi chiede spesso se lo è o no, e io rispondo che non è diverso da un qualsiasi altro film.
Elettrizzante, allora.
A volte… Però le sparatorie e gli inseguimenti sono preparati così meticolosamente che non è certo come stare seduti al circo a guardare quello che succede.
Un bel salto da Play for Today.
Per me non è affatto strano. La macchina da presa è più grande, il set è più grande. Ma è lo stesso lavoro, sul serio.
Quindi non hai la sensazione che il tuo lavoro sia meno creativo quando hai a che fare con dieci o dodici unità?
Beh, visivamente è meno creativo, perché non controlli tutto. Quello che puoi fare è dare consigli, scegliere i cameramen delle varie unità.
Si diventa dei manager.
Sì, assolutamente.
Ma, come hai raccontato nella masterclass svelando come l’intro di Casino Royale sia ispirata visivamente a Ipcress di Sidney J. Furie, al principio di una produzione mastodontica come quella ci sono due cinefili che parlano di vecchi film.
Sì. Anche per preparare GoldenEye abbiamo visto tutti i film di James Bond insieme. Siamo andati nel mio appartamento a Los Angeles e li abbiamo rivisti tutti e diciassette, uno dopo l’altro, per capire cosa tenere e cosa scartare.
Quale ti è sembrato quello con la fotografia migliore?
A 007, dalla Russia con amore. Ha quella strepitosa scena di combattimento sul treno, con Robert Shaw. L’operatore era Ted Moore, che ha imposto quello stile – oggi tendiamo a dimenticarlo. Penso sia stato il primo film britannico ad avere appeal su scala mondiale. Non era Giovantù, amore e rabbia o Il servo: aveva una gamma di colori molto ampia, un aspetto molto professionale.
Quando guardi alle cose che hai fatto che atteggiamento hai? Sei il peggior critico di te stesso?
Devi esserlo, perché è quello che ti stimola ad andare avanti. C’è quella famosa storia dello scultore che invita a casa gli amici a visionare la sua ultima opera. Tutti gli fanno i complimenti: “Assolutamente perfetto, il tuo miglior lavoro”, gli dicono. Quando si girano verso di lui lo vedono in lacrime e gli chiedono perché piange, visto che ha creato qualcosa di magnifico. E lui risponde: “Lo so, ma adesso cosa faccio dopo questo?”
Quindi il tuo miglior lavoro deve ancora venire: è nel futuro.
In Beyond Borders ci sono alcune delle cose più belle che ho fatto. L’autore delle musiche, il compianto James Horner, mi disse: “Phil, è fantastico, avrai una nomination agli Oscar per questo film, non pensi?” Ma nessuno l’ha visto…. A volte la gente è così caustica nei confronti dei film. In ognuno di essi ci sono dalle trenta alle centotrenta persone che si impegnano per fare un bel lavoro, e poi magari qualcosa si mette di traverso e finisce che nessuno va a vederlo. Ed è così demoralizzante, perché ti sei alzato alle cinque per mesi… Nessuno parte con l’intenzione di fare un brutto film.