di Renato Venturelli
Arriva uno dei film destinati ad essere ideologicamente più discussi del festival, l’occasione per quelle battaglie contenutistiche d’altri tempi e per indignazioni sul carattere “reazionario” del film. “Aus dem Nichts / In the Fade”, ultimo film del Fatih Akim di “La sposa turca” e “Soul Kitchen”, sfugge infatti ai prevedibili buonismi delle convivenze etniche per affondare in un tetro racconto di “revenge”.
Protagonista, un’ottima Diane Kruger, nella parte di una tedesca che ha sposato un ex-spacciatore mediorientale, vive adesso un tranquilla vita familiare con marito e figlio, ma un giorno se li vede strappare da un’eplosione davanti al loro negozio. La polizia sospetta immediatamente proprio la vittima, lo ritiene ancora legato ai traffici di droga, ma a poco a poco affiora invece la verità e nella sua parte centrale il film s’impernia sul processo contro una coppia di nezonazisti, che hanno fatto esplodere l’ordigno nel cuore di un quartiere di immigrati dilaniando così marito e figlio della protagonista.
Dopo varie scene processuali in cui spicca soprattutto un avvocato difensore digrignante, una gran faccia da cattivo da Terzo Reich (lo interpreta Johannes Krisch, caratterista dall’efficacia d’altri tempi), la terza e ultima parte del racconto più che mai classicamente diviso in tre atti riguarderà proprio la reazione della protagonista: che si ritrova davanti alla questione etica della giustizia fai-da-te, e parte per la Grecia dove gli imputati vengono protetti dagli amici di Alba Dorata.
Akin dice di aver fatto il film anche perché non ne può più delle interminabili rievocazioni della Germania nazista che arrivano ogni anno sugli schermi, sempre collocando lo scenario indietro nel tempo, all’epoca della seconda guerra mondiale e dei campi di sterminio, evitando così di affrontare il problema vero: “si girano ancora innumerevoli film sulla seconda guerra mondiale. Personalmente non ne posso più: perché è oggi che si trovano i nazisti in Germania!”. E il film, con tutta la sua costruzione squadrata e manipolatrice, si salva proprio se lo si affronta come quel thriller che intende dichiaratamente essere, un film – dice Akin – fatto anche nella scia dei revenge di Tarantino e dei coreani, ma dove la questione non è più astrattamente convenzionale, ma direttamente collegata alla realtà di oggi, con la provocazione dell’eroina tedesca che va a vendicarsi dei nazisti.
Se “In the Fade” di Akin viene accolto con comprensibile diffidenza, addirittura disastroso è l’altro film della giornata, “L’amant double” di François Ozon, che si apre bizzarramente sull’inquadratura di una vagina. Ozon realizza ancora un film sulla natura multipla delle persone, sul fatto che un’identità ne nasconde sempre un’altra più segreta, occultata, destinata prima o poi ad affiorare alla luce o irrompere con tutta la forza del rimosso. Qui sfiora spunti e atmosfere da thriller, tra dr.Jekyll/mr.Hyde, e magari pure Rosemary’s Baby. Protagonista, una ragazza che un giorno cambia look e va da uno psichiatra di cui s’innamora, cominciando con lui una vita di coppia, ma scoprendo presto che l’uomo ha (forse) un suo doppio, un gemello dal carattere opposto: e a quel punto inizia un continuo basculamento tra i vari piani del doppio e della gemellarità, con tanto di gatto maschio a tre colori, e di scena di sesso in cui la donna penetra il suo amante con un fallo di gomma. Uno dei film che fanno più esplodere la polemica di chi accusa da anni Cannes di privilegiare per il concorso non i migliori film ma una serie di nomi-garanzia, di “autori ufficiali” da festival come appunto Ozon.
Più interessante, allora, “Posoki” di Stephan Komandareev, che passa al Certain Regard. Un film bulgaro tutto incentrato sul mondo dei taxi, con un tassista esasperato dalla corruzione che in una delle prime scene uccide un bancario e poi si spara: e il resto del film continua a passare da un interno di taxi all’altro, costruendo la sua storia circolare a base di autisti e clienti, mentre tutti commentano l’omicidio appena avvenuto. I vari personaggi ed episodi dipingono in modo fin troppo didascalico una Bulgaria così cupa e soffocante da essere ormai abitata solo da “ottimisti” e sognatori, perché – dice un personaggio – tutte le persone realiste e pessimiste se ne sono andate da un pezzo. E se la formula è consunta, viene descritto con discreta efficacia questo universo sotterraneo, dove i tassisti sono per lo più persone che avevano lavori brillanti, studi universitari, a volte imprenditori o insegnanti, ma che trovandosi in difficoltà economica si sono inabissati per sopravvivere in questa dimensione buia e notturna, entrando quotidianamente a contatto con la faccia più squallida e oscura della Bulgaria.