di Renato Venturelli.
L’attenzione della seconda giornata a Cannes 2017 è per lo più rivolta alle polemiche su Netflix, con fischi che cominciano a risuonare alle 8.30 del mattino alla Lumière fin dall’apparire del logo sui titoli di testa di Okja. Cinema, non cinema, sala, rete, tutte discussioni un po’ paradossali, anche perché come comincia la proiezione ci s’immerge subito nel cinema purissimo, divertente e coinvolgente di Bong Joon-ho, il regista sudcoeano di “Snowpiercer”, “The Host”, “Memories of Murder”, e pazienza se molti storcono il naso perché qui si dedica a una scorrevole favoletta ecologista, una specie di King Kong contro i mostri produttori di Ogm. Film fiabesco e politico al tempo stesso, con una ragazzina che vive sperduta sui monti insieme al maialone fornitole da una multinazionale per il lancio sul mercato dei suoi nuovi prodotti: ma quando la bimba scopre che l’animale del cuore finirà in un macello degli Stati Uniti, comincia la lotta per salvarlo.
Tilda Swinton è la cattivissima imprenditrice di animali geneticamente modificati, la vicenda sembra curiosamente una metafora del rapporto tra cinema e Netflix, con film grandiosi e spettacolari condannati ad essere macellati sul web anziché vivere su grande schermo: ma è curioso che gli italiani si appassionino alla polemica, visto che quasi tutti i grandi film di genere passati nelle ultime stagioni a Cannes sono stati poi inesorabilmente esclusi dal mercato italiano, tagliati fuori dalle sale e condannati ad essere visti da noi solo in televisione (da “The Homesman” di Tommy Lee Jones a “Cold in July” ecc.), bannati sia dal circuito dei multiplex sia da quello d’essai.
E’ comunque giornata di discussioni, con gran parte dei critici che massacrano “Jupiter’s Moon” dell’ungherese Kornel Mandruczo, quello dei cani di “White God”: meglio tornarci sopra fra qualche tempo, al riparo dalle frettolose mannaie da festival, perché il film è sgangherato ma Mandruczo conferma qualità e ambizioni. Grandi entusiasmi per “Visage Villages” di Agnès Varda (88 anni, fuori competizione) e per “L’amant d’un jour” di Philippe Garrel, elegante esercizio di stile che alla Quinzaine manda in visibilio i nostalgici Nouvelle Vague, ma ci sono almeno altri due titoli della giornata da segnalare. Uno è l’iraniano “Un uomo integro” di Mohammad Rasoulof, passato a Un certain Regard: la storia individuale di un uomo che si allontana dalla città, va a vivere con la moglie in provincia, mette su un piccolo allevamento di pesci d’acqua dolce, ma deve fare i conti con le prepotenze di un’azienda locale, le violenze dei sistemi di potere, la corruzione capillare di tutte le istituzioni, a cominciare da quella religiosa. Un ritratto cupissimo dell’Iran che non parte dalle grandi questioni ideologiche e religiose, ma dal marcio morale profondo, quello che alligna nelle radici della società, dove le stesse moschee e i guardiani della rivoluzione non sono minacciosi per i loro integralismi, ma per un sistema di potere a base di interessi privati, mafie locali, sopraffazioni che si nutrono dell’autoritarismo e della mancanza di democrazia.
Alla Quinzaine, invece, buone notizie per l’Italia: “A ciambra“, dell’italo-americano Jonas Carpignano, riesce a raccontare con efficacia asciutta e intensa la feroce storia di formazione di un ragazzino della comunità rom calabrese, un quattrodicenne che non vuol più rimanere confinato tra i bambini ma pretende un suo posto in mezzo agli adulti. Crede di avere un modo eroico per farlo, e cioè inserendosi pienamente nella piccola criminalità quotidiana, fatta di furti, di auto sequetrate e poi riconsegnate dietro riscatto ai loro stessi proprietari, ma scoprirà che il prezzo da pagare per diventare adulti è quello molto più alto del tradimento. Tutto girato secondo i consueti pedinamenti dei personaggi con macchina a mano, ma anche con la capacità di costruire un racconto a suo modo forte e asciutto partendo da una realtà umana e geografica molto concreta.