Ricostruzione di una dittatura – Intervista a Paz Encina

di Massimo Lechi.

Uno dei titoli di maggior interesse della competizione internazionale del diciannovesimo Thessaloniki Documentary Festival è stato senza ombra di dubbio l’intenso Memory Exercises (Ejercicios de Memoria) della cineasta paraguayana Paz Encina, già vincitrice a Cannes, undici anni fa, del prestigioso Premio Fipresci con Hamaca Paraguaya.

Chi ricorda le immagini fisse e la narrazione ieratica del precedente lungometraggio resterà probabilmente sorpreso di fronte alla complessità di questo nuovo suggestivo documentario, incentrato sulla figura di Agustín Goiburú, uno dei più celebri oppositori al regime di Alfredo Stroessner (1954 – 1989), scomparso misteriosamente nel 1977 dopo anni di esilio in Argentina.

Partendo dal vuoto lasciato nelle vite dei tre figli Rogelio, Rolando e Jazmin, Encina lavora su una memoria labile, inquieta e mai lineare, che sembra costantemente sfilacciarsi e sfuggire, mentre la mobilissima macchina da presa penetra nella vecchia casa dell’esilio e insegue bambini nella natura, salvo poi concentrarsi, nei passaggi più duri, sulle foto e i documenti scovati negli archivi della polizia stroessnerista.

Sospeso tra Storia, cronaca e poesia, Memory Exercises  è un film di voci che ricostruisce la spietata dittatura militare paraguayana nel modo più incisivo e originale possibile, rendendo universali i ricordi privati di una famiglia ferita.

La tua storia personale è strettamente legata alla lunga e terribile dittatura di Alfredo Stroessner.

La dittatura, in Paraguay, è durata trentacinque anni. Di questi trentacinque, ne ho vissuti diciotto: sono nata nel 1971, mentre il regime è finito nel 1989. Inoltre mio padre era stato un oppositore politico, costretto in seguito all’esilio… Lui e Agustín Goiburú erano compagni di partito. Sin dall’infanzia ho sentito parlare di Agustín. Tutti parlavano di Agustín, che era come un nemico personale di Stroessner. Ma nessuno lo faceva ad alta voce.

Come è nata l’idea del documentario?

A dire il vero, Memory Exercises è stato il primo film che ho voluto fare. Ho iniziato a lavorarci nel 1998, l’anno in cui per la prima volta intervistai la moglie di Agustín. Ma all’epoca non mi sentivo pronta, e così mi concentrai su altri lavori…

La dittatura militare paraguayana è ancora una storia oscura, per noi occidentali almeno. Ci sono molti film sul Cile di Pinochet, sul Brasile della giunta e sull’Argentina di Videla, ma sul Paraguay di Stroessner non viene in mente nulla.

E’ molto difficile parlare di questa storia… Tutto il potere politico e tutto il potere economico, in Paraguay, era in mano agli stroessneristi. Dunque c’è ancora paura.

I paraguayani vogliono dimenticare la dittatura? Hai la sensazione che la tua generazione e quella precedente stiano cercando di rimuoverla del dibattito pubblico?

Non so se vogliano dimenticarla…Di sicuro non vogliono ricordarla. Il Paraguay è un paese piccolo, ma c’è una parte consistente della società che si è arricchita con la dittatura, che ha tratto vantaggio dalla dittatura e che dunque non ne vuole parlare. C’è poi un’altra parte che invece è stata colpita dal regime, e al cui interno si trovano persone che lavorano affinché quegli anni vengano ricordati e altre che non ne parlano perché ferite. E’ passato molto tempo dall’arrivo della democrazia, ma la loro sofferenza non è stata riconosciuta.

Di Memory Exercises colpiscono immediatamente due cose: una a livello sonoro e l’altra a livello visivo. Le voci, innanzitutto.

Ho iniziato il film con quella che io chiamo “ripresa sonora”, in cui ho registrato e raccolto le testimonianze dell’esilio. Il mio è soprattutto un film di voci: ci sono le voci dei figli di Agustín, c’è la mia voce, quella di una bambina e quella del repressore, e in diversi momenti anche quella della radio. Questa struttura, credo, apre la trama e può permettere a ognuno di fare il proprio esercizio di memoria.

La seconda, invece, è la presenza dei bambini.

E’ perché penso che questo film sia per loro. Ho sentito di doverlo realizzare adesso, ma non è un film per il presente.

Nel lungometraggio precedente, Hamaca Paraguaya, la macchina da presa era fissa, chiudeva i personaggi in quadri molto precisi. In Memory Exercises, invece, si muove morbida quando segue i bambini o nelle parti girate nella casa dei ricordi.

Ho creduto di dover muovere la macchina da presa per due motivi. Primo, perché la memoria è inquieta – non penso che abbia un luogo specifico – e perché il movimento mi permetteva di navigare insieme ai testimoni. Secondo, per i bambini, per star loro vicino.

Il fluttuare della macchina da presa associato all’intrecciarsi delle voci crea un’atmosfera sospesa, quasi rarefatta, che è molto poetica. Mi sembra che nel film tu abbia consapevolmente forzato i limiti del documentario… Memory Exercises è qualcosa di più.

Sì… Quando mi chiedono se è documentario o finzione, rispondo che è un documentario. Perché penso che rispondere che si tratta di finzione sarebbe molto pericoloso. Ho paura che qualcuno pensi che sia tutto inventato, che non sia mai successo….Dentro di me però ho sempre pensato di aver fatto un film. Un film con delle testimonianze documentarie sonore e anche visive – perché le foto sono documenti.

Il fatto che tu provi un senso di responsabilità molto forte, specie nei confronti delle nuove generazioni, è evidente. Posso però solo immaginare quanto sia stato difficile per te lavorare su questa storia…

Certamente, lo è stato. Mi avevano messa in guardia, ma non avrei mai immaginato che avrebbe potuto essere così doloroso. Mettermi a studiare gli archivi – cosa che ho fatto da cima a fondo –  è stato un processo molto duro, terribile, principalmente perché per me ha significato tornare a vivere quegli anni. Mi hanno colpito soprattutto due cose: vedere foto di gente che conoscevo e vedere foto di compleanni di bambini, che erano tutti sotto sorveglianza… Come potevano controllare una festa di bambini?… Mi sono ricordata di mio padre che, il giorno del mio compleanno, quando ero piccola, a sei o sette anni, mi diceva che sarebbe andato ad avvertire in commissariato. A casa mia, senza prima aver avvisato la polizia, non potevamo riunirci.

Pensi che con questo film si sia esaurito il tuo contributo al dibattito sulla dittatura?

Negli ultimi sette anni ho lavorato quasi solamente sulla dittatura. Ho realizzato un cortometraggio, Viento Sur, una trilogia che si chiama Tristezas de la Lucha e anche tre installazioni, Notas de Memoria… Ora voglio fermarmi per un periodo, perché tutto questo è stato molto stancante per me. Sento di dovermi fermare sia come persona sia come regista. Però penso che forse, più avanti, riprenderò l’argomento.

Massimo Lechi

Postato in Thessaloniki Documentary Festival 2017.

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