“LA LA Land” di Damien Chazelle

di Aldo Viganò.

Ecco un musical come si faceva una volta, almeno in apparenza. Un film ricco di citazioni del cinema passato e con eleganti sequenze danzate rigorosamente a figura intera, come s’addice alla rappresentazione dei corpi in movimento; mentre quelle parlate o cantate preferiscono i campi ravvicinati o le mezze figure. Un film che predilige i piani sequenza al frenetico montaggio dei recenti musical di successo (da Moulin Rouge a Chicago, sino a Wiplash dello stesso Damien Chazelle) e che racconta una qualsiasi storia d’amore intrecciandola con le parallele ambizioni artistiche dei due personaggi principali.

Va però subito detto che quella esibita da LA LA Land (il ripetuto LA sta per Los Angeles, città nella quale il film in gran parte si svolge) non vuole affatto essere una semplice operazione nostalgia. Le ambizioni del poco più che trentenne Chazelle, infatti, sono con evidenza più grandi e innovative, proponendosi egli, infatti, di coniugare i musical del periodo d’oro di Hollywood con quelli dichiaratamente europei alla Jacques Demy, e di farlo guardando a Vincent Minnelli e a Stanley Donen, ma contemporaneamente anche a Woody Allen, del quale il giovane regista di Providence (Rhode Island) fa propria soprattutto la senile vena melanconica. Il tutto girando il film in un digitale che, nei suoi effetti di montaggio elettronico e nella predilezione dei colori smaglianti, cita come altra sua dichiarata fonte d’ispirazione Un sogno lungo un giorno di Francis Ford Coppola.

Cadenzato in episodi intitolati alla quattro stagioni (dalla Primavera all’Inverno), ai quali si aggiunge un epilogo “cinque anni dopo”, il super premiato (da Venezia a Toronto, dai Globe alla prevedibile pioggia di Oscar) musical di Chazelle evoca i sogni di due giovani artisti: lei (Mia / Emma Stone) vorrebbe fare l’attrice, ma tra un provino mancato e un altro deve accontentarsi di sbarcare il lunario come barista in uno Studio hollywoodiano dal glorioso passato; lui (Sebastian / Ryan Gosling) sogna di aprire un proprio Jazz Club, ma deve accontentarsi di fare il pianista per il padrone di un ristorante dagli infantili gusti musicali o nella band di un ex compagno di scuola che cerca d’inseguire il (cattivo) gusto del pubblico giovanile.

Chazelle racconta questa coppia con i toni di un melodramma (al quale però vengono negati sia l’happy end che la conclusione tragica) e nello stile onirico di un malinconico realismo simbolicamente evocato dalla sequenza in cui i due protagonisti, tra i quali sta nascendo l’amore, vanno al cinema per vedere Gioventù bruciata: proprio all’inizio della sequenza girata da Nicholas Ray all’Osservatorio astronomico di Griffith Park la pellicola prende fuoco (succedeva prima del digitale!), la proiezione si interrompe, e allora alla finzione Mia e Sebastian preferiscono la realtà, andando direttamente a visitare le sale del vicino Osservatorio.

È questa per molti versi la sequenza chiave di LA LA Land. Film agile e scorrevole, a suo modo piacevole da seguire, che a ben vedere è proprio interamente costruito sul rapporto tra sogno (le scene dove si canta e si danza, a partire da quella collettiva d’apertura che illumina l’ingorgo automobilistico collettivo sulla tangenziale di Los Angeles) e realtà (quella che quotidianamente vivono i due giovani di belle speranze), sino a che dal campo dell’illusione i sogni si trasformano in realtà nell’epilogo, con lei che ha successo in una “serie” girata a Parigi e lui che suona finalmente nel suo Jazz Club, portando il racconto verso la realizzazione di sogni separati (unificati solo dall’immaginazione in forma di musical), i quali però  lasciano dietro di sé la malinconica scia del rimpianto di quello che poteva essere, ma non fu, come è esplicitato dallo scambio di sguardi tra Mia e Sebastian che conclude il film.

La vita come sogno e la vita come realtà: la loro unificazione fu il terreno nel quale – in modo spontaneo e dichiarato – nacquero i grandi musical del passato. Un colorato campo nel quale anche Chazelle non fa mistero di voler coltivare il proprio assunto narrativo, lasciando però che queste due concezioni della vita dichiarino in modo sin troppo programmato la propria origine, ora intrecciandosi e ora separandosi per poi tornare a unirsi, in un movimento la cui sintesi oggi non è più proponibile, come il regista è il primo a volerci far sapere, perché apparteneva a un tempo in cui il cinema poteva ancora essere il gioioso collante degli opposti, la sintesi tra sogno e realtà. Proprio come accadeva negli anni Cinquanta con Un americano a Parigi o Spettacolo di varietà. Ma, ora, sembra dirci Chazelle a ogni momento del suo film, quel cinema non esiste più: si può solo cercare di testimoniarlo, con un atto d’amore che sfocia inevitabilmente nella nostalgia. Proprio come ha fatto lui, scrivendo e dirigendo LA LA Land con affetto e forse con qualche rimpianto: anche, inevitabilmente, come s’addice alle vecchie cose che vivono solo nella memoria, con un retrogusto di narcisistico esibizionismo, frutto di un’operazione sin troppo costruita a tavolino. Tanto più perché a gestirne i risultati non c’è più, oggi, il carisma unificante rappresentato una volta dal divismo di un Fred Astaire e di Gene Kelly, ma solo le agili movenze e la professionale recitazione di due onesti attori costretti a vivere nel nostro presente.

 

LA LA LAND

(LA LA Land, Usa 2016) regia e sceneggiatura: Damien Chazelle – fotografia: Linus Sandgren – musica: Justin Hurwitz – scenografia: David Wasco – coreografia e costumi: Mary Zophres – montaggio: Tom Cross. Interpreti: Emma Stone (Mia Dolan), Ryan Gosling (Sebastian Wilder), John Legend (Keith), J.K. Simmons (Bill), Rosemarie DeWitt (Laura Wilder), Finn Wittrock (Greg). distribuzione: 01 Distribution – durata: due ore e 8 minuti

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