di Aldo Viganò.
Sui palcoscenici francesi, Jean-Luc Lagarce (nato a Héricourt nel 1957 e morto di Aids nel 1997) risulta essere il drammaturgo più rappresentato dopo Shakespeare e Molière e grazie alle sue ventisei commedie scritte in meno di vent’anni è considerato un autore ormai “classico”, apprezzato per il suo linguaggio scorrevole e per la ricchezza dei suoi riferimenti culturali: a volte sin troppo esibiti e altre solo sottolineati dalla critica.
E puntualmente, dopo il successo della versione teatrale, anche a proposito della versione cinematografica di È solo la fine del mondo non si è mancato di far riferimenti a miti molto noti come quello del Figliol Prodigo o quello di Caino e Abele. Mah?! Certo è che a vedere il film “all stars” che da questa pièce del 1990 ha tratto il giovane canadese Xavier Dolan, con il solito immancabile “grand prix” al Festival di Cannes, questa classicità pensosa risulta alquanto penalizzata da una regia che per partito preso sta sempre troppo addosso ai personaggi, limitandosi a giocare sul contrasto tra il volto silenzioso del protagonista (Garpard Ulliel), uno scrittore teatrale di successo che torna a casa dopo dodici anni con l’intento (non mantenuto) di annunciare ai parenti la sua prossima morte per Aids, ma che si trova alle prese con una madre svaporata (Nathalie Baye), un fratello rancoroso (Vincent Cassel), una sorella tossicodipendente ancora alla ricerca di se stessa (Léa Seydoux) e una cognata (Marion Cotillard),succube del marito e bisognosa d’affetto.
Ammantato da Dolan in un tono languidamente omosessuale, È solo la fine del mondo finisce così con l’essere soprattutto un dramma famigliare caratterizzato da una fondamentale incomunicabilità che sul piano estetico il regista tende a risolvere nel susseguirsi di primi piani isolati. Scelta stilistica, questa che, mentre dà al film un sapore sin troppo televisivo, diventa poi dichiaratamente teatrale nell’articolazione delle prestazioni attoriali, le quali passano senza sfumature dal sussurro quotidiano al compiacimento dell’ira repressa che sembra preludere a una rissa che però mai si manifesta.
Firmato dall’astro nascente dei festival cinematografici internazionali, il film di Dolan conferma così sia i limiti, sia i pregi del cinema dell’autore di Laurence Anyways: i desideri di una donna (2012), Tom à la ferme (2013) e Mommy (2014): da una parte c’è la sua indubbia professionalità nel proporre opere capaci di essere insieme classiche e provocatorie, ma dall’altra c’è anche l’esibizione di un compiacimento estetico decisamente fine a se stesso o con lo sguardo rivolto soprattutto alla conquista del riconoscimento degli altri. Con la conseguenza che tutto questo va inevitabilmente a discapito della coerenza e compattezza narrativa, lasciando il desiderio di fondo che con il trascorrere degli anni il ventisettenne Xavier Dolan (nato nel 1989, con alle spalle una già intensa carriera d’attore, un paio di videoclip e sei lungometraggi che ne hanno fatto prematuramente un’icona del cinema contemporaneo) sia in grado di mettere a frutto, al più presto possibile, un’idea di cinema che gli permetta finalmente di cessare di essere considerato e di considerarsi un eterno “enfant prodige”. Da questo atto di consapevole realismo, la sua carriera e i suoi film futuri avranno tutto da guadagnare.
È SOLO LA FINE DEL MONDO
(Juste la fin du monde, Canada-Francia, 2016) regia, sceneggiatura, montaggio, costumi: Xavier Dolan – soggetto: dalla commedia omonima di Jean-Luc Lagarce – fotografia: André Turpin – musica: Gabriel Yared, scenografia: Colombe Raby. interpreti: Gaspard Ulliel (Louis), Nathalie Baye (la madre), Vincent Cassel (Antoine), Marion Cotillard (Christine), Léa Seydoux (Suzanne). distribuzione: Lucky Red – durata: un’ora e 37 minuti