di Renato Venturelli.
Erano gli anni del beat italiano, cominciati ai tempi degli urlatori, sviluppatisi col boom del 45 giri che dalla fine degli anni ’50 aveva soppiantato l’ingombrante 78 giri e guidava la battaglia per una musica leggera destinata solo ed esclusivamente ai giovani, nuova categoria commerciale che si stava imponendo a tutti i livelli sulla scia dell’esempio americano. Erano anche gli anni di settimanali come “Giovani”, di “Ciao amici”, “Big” o della loro fusione in “Ciao Big 2001”, che vengono raramente ricordati, ma veicolavano tutto un clima sottoculturale che andava al di là della semplice informazione musicale per adolescenti: d’altra parte, proprio dal settimanale “Il Musichiere”, pubblicato sulla scia del programma di Mario Riva e uscito per un paio d’anni, era esploso il fenomeno dei 45 giri per ragazzine, con i famosi, coloratissimi flexy-disc dell’epoca.
A rievocare al Torino Film Festival quel periodo anche nell’ambito del cinema ci pensa adesso il documentario “Nessuno ci può giudicare” di Steve Della Casa, che è sempre stato capofila tra gli esperti di “musicarelli” italiani anni ’60, cui aveva già dedicato uno storico “speciale” della rivista “Cineforum”. Il film è costruito in modo agile, veloce e rigoroso attorno a una serie di interviste e di filmati d’epoca (alcuni anche rari), puntando soprattutto sull’elemento di rottura costituito dal beat italiano, più che sulla restaurazione del musicarello fizzarottiano, che fu peraltro quello destinato a raggiungere i maggiori successi di pubblico.
Tra gli intervistati, un bel po’ di protagonisti d’epoca: da Caterina Caselli a Rita Pavone (che con la Wertmuller tentò anche la strada di un vero e proprio “musical all’italiana”), da Ricky Gianco al Gianni Pettenati di “Bandiera Gialla”, fino agli stranieri Shel Shapiro dei Rokes e Mal dei Primitives, che ricorda il viaggio avventuroso e squattrinato da Londra attraverso mezza Europa per rispondere alla chiamata romana. Mancano Celentano e Morandi, ma in mezzo c’è anche un’intervista a Piero Vivarelli, morto sei anni fa, ex-repubblichino della X Mas, ma fiero di proclamarsi comunista e con la tessera del partito castrista cubano: personaggio centrale nella nascita del musicarello anni ’60, Vivarelli aveva realizzato insieme a Fulci i primi film del filone, in bianco e nero, imperniati soprattutto sulla polemica contro l’Italia democristiana, ipocrita e perbenista cui si ribellavano -nei film- i giovani urlatori e rockettari d’epoca, e snobbando invece quelle storielline familiar-sentimentali destinate a trionfare negli anni successivi.
Vivarelli racconta anche come scrisse il testo di “24.000 baci”, Caterina Caselli rievoca come venne completamente rivoltata “Nessuno mi può giudicare”, Steve Della Casa ricorda che Marco Bellocchio aveva contattato inizialmente Gianni Morandi come protagonista di “I pugni in tasca”, e che Morandi aveva inizialmente accettato: ma, alla fine, conviene che nel 1969-70, quando qui ancora imperversavano i musicarelli con Al Bano e Romina Power, dall’America stavano già arrivando “Easy Rider” e “Woodstock”, segnando la fine di un’epoca. Quanto a Shel Shapiro, ricorda che quando arrivò in Italia le donne erano vestite di nero e tutti portavano segni di lutto sui vestiti, ma nel giro di un paio d’anni ci fu un’esplosione di colori e di colpo l’Italia divenne colorata…
Il fenomeno dei “musicarelli”, d’altronde, non appartiene tanto alla nostalgia (in fondo erano film da mercato “di profondità”, con un pubblico socialmente ben definito e ben distinto) quanto a un momento del costume e dello spettacolo italiano a suo modo complesso, sospeso tra vecchio e nuovo, fra l’antico teatro di rivista e il boom della cultura televisiva, tra strapaese e cover straniere, pubblico di provincia e viaggi giovanili nella swingin’ London: e tutto condito dalla grafica allegramente pop di manifesti, locandine e flani pubblicitari d’epoca.