di Aldo Viganò.
Al centro dell’ultimo film dell’ottantenne Ken Loach, premiato a sorpresa con la Palma d’oro al Festival di Cannes, c’è la dichiarata difesa della dignità umana sul grigio sfondo di un Occidente capitalistico globalizzato, che tende a ridurre l’individuo a pedina non necessaria (anzi, sovente fastidiosa) dell’apparato socio-culturale nel quale il singolo – soprattutto se appartenente alla classe economicamente più debole – si trova a giocare la propria esistenza.
Alla vigilia dei suoi sessant’anni, il carpentiere Daniel Blake perde il lavoro a causa di un infarto, per il quale i medici lo invitano a sospendere il quarantennale impegno produttivo ed evitare ogni emozione come qualsiasi fatica fisica. Con lo stile semplice, ma efficace, che lo contraddistingue e con rinnovato rigore dello sguardo squisitamente cinematografico, Ken Loach racconta la tragica odissea di quest’uomo, inframmezzandola con situazioni anche comiche e intrecciandola con quella di Katie, ragazza madre con due figli, trasferitasi contro la propria volontà da Londra a quella cittadina di provincia. L’odissea tende così a raddoppiarsi nel mare periglioso di una società parcellizzata dove nessuno è personalmente responsabile di quello che fa e dove la disarmata sensibilità umana di Katie e il materialistico buon senso di Daniel (concretizzato nelle sue ottime capacità manuali) non contano nulla né per sopravvivere, né per ottenere il dovuto sussidio statale: portando la ragazza alla scelta obbligata della prostituzione e il cuore di Daniel a cedere infine nella toilette della sala d’attesa dove si sta per discutere il suo ricorso affinché gli sia riconosciuto lo stato d’invalidità fisica.
Dai tempi di Riff Raff o di Bread and Roses, il mondo è decisamente cambiato se il dichiarato socialista Ken Loach si trova ora a difendere la dignità di un singolo individuo di fronte alla disumanità della società collettiva, che con la sua asettica ferocia divora Katie e distrugge Daniel. La lotta di classe è qui solo sottintesa, messa tra parentesi o solo parodiata dagli applausi dei giovani in maschera all’atto di rivolta del protagonista. A spingere Daniel a rivendicare la propria individuale esistenza, scrivendo sui muri dell’asettico ufficio per l’impiego la propria firma preceduta dal pronome personale “Io”, è il disinteresse, da una parte, del governo inglese per il cittadino inteso come essere umano e, dall’altra, quello del moderno apparato statale in quanto tale, con i suoi tecnicismi e con la sua mancanza di sensibilità quotidiana.
Con quel gesto carico di valenza “politica”, ma non più dichiaratamente “collettivo”, Daniel rivendica il proprio diritto sociale e proclama con dolcezza la sua rivolta nei confronti di un sistema che lo sta facendo precipitare nel gorgo di un “folle” giro vizioso fatto di domande senza logica, di astrusi moduli da compilare e di obbligatorie competenze informatiche. Di fronte a questa “modernità” le sue primordiali capacità manuali (“Io so aggiustare tutto” dice a Katie, guardandosi intorno nel fatiscente appartamento di lei) possono forse interessare i bambini facendoli anche divertire, ma sono certo inutili a garantire la sopravvivenza nell’Inghilterra di oggi. E allora? L’unica alternativa per Daniel sembra quella di rimanere aggrappato alla propria dignità. Comunque. Sino alla morte. Mentre agli altri, intorno a lui, resta solo l’arte di arrangiarsi: sia quella praticata dal giovane vicino di casa di colore che acquista scarpe in Cina e le rivende per la strada a metà del prezzo richiesto dai negozi inglesi; o sia quella accettata con rassegnazione da Katie, la quale, per sfamare i propri figli, si rassegna infine, pur con vergogna, a vendere il proprio corpo in una squallida casa di appuntamenti.
Ignorando le tentazioni di un linguaggio dichiaratamente “moderno”, Ken Loach racconta questa storia fondamentalmente tragica e disperata con grande leggerezza, mettendo al centro del suo essenziale discorso narrativo lo sguardo su quel uomo che comunque non si rassegna mai, capace come è di trovare piacere anche nelle piccole cose quotidiane o in uno sguardo, una parola, un pasto consumato insieme, nei quali anche lo spettatore può intravvedere, forse, il frammento di una possibile solidarietà: scintilla salvifica per una società che sembra ormai averla perduta.
Qualcuno ha scritto che Io, Daniel Blake è in prevalenza il film di un vecchio regista incapace ormai di sintonizzarsi con il presente o di ribellarsi alle sue evidenti contraddizioni, ma forse chi lo ha scritto o anche solo pensato non ha capito che proprio da questo sguardo classico e pacato, a tratti anche sorridente, di Ken Loach sull’Inghilterra di oggi, è nato probabilmente il film più autenticamente rivoluzionario del mai pacificato anziano regista britannico.
IO, DANIEL BLAKE
(I, Daniel Blake, Gran Bretagna-Francia, 2016) Regia: Ken Loach – Sceneggiatura: Paul Laverty – Fotografia: Robbie Ryan – Musica: Geroge Fenton – Costumi: Jo Slater – Montaggio: Jonathan Morris. Interpreti: Dave Johns (Daniel) – Hayley Squires (Katie), Sharon Percy (Sheila), Brian Shann (Daisy), Dylam McKiernan (Dylan). Distribuzione: Cinema di Valerio De Paolis – Durata: un’ora e 40 minuti