di Renato Venturelli.
Ha appena compiuto settant’anni, e all’ultimo festival di Cannes era presente alla Quinzaine con “Dog Eat Dog”, cupo crime movie tratto da Edward Bunker e realizzato con grande libertà stilistica a partire da un budget limitato. Ma il nome di Paul Schrader è da qualche tempo uno dei più discussi tra quelli dei grandi autori americani usciti dagli anni ’70, come tanti suoi coetanei sempre più emarginato da Hollywood e dintorni, eppure testardamente attivo, anche se travolto da rapporti terribilmente complicati con i suoi produttori.
Lo sceneggiatore di “Taxi Driver” e regista di “American gigolo” è un autore che sta a poco a poco esaurendo la sua vena, travolto anche dai continui problemi produttivi che hanno minato molti suoi film degli ultimi anni, come sostengono alcuni? Oppure è un autore irriducibile, che si mantiene ostinatamente fedele a una linea personale di ricerca in un contesto di post-cinema che sta risultando fatale a gran parte dei colleghi affermatisi con lui negli anni ’70?
Alberto Castellano ha adesso curato un volume “Paul Schrader il cinema della trascendenza” (Mimesis, 197 pp, 18 euro) che attraverso una serie di contributi di diversi autori e diverse metodologie cerca di fare il punto partendo dal lavoro di Schrader negli anni ’70 per arrivare alle più recenti imprese, tra cui spiccano opere come “The Canyons” ma anche titoli disconosciuti dall’autore come il pur interessante (ma massacrato al montaggio) “Il nemico invisibile”.
Molti interventi partono ovviamente dal concetto di trascendente nel cinema teorizzato da Schrader e dal modo in cui si è concretizzato nei film che ha poi diretto, spesso rapportandosi con la tradizione dei generi: l’occasione di un regista partito con complesse riflessioni teoriche è di quelle cui è difficile rinunciare. Nella sua introduzione, Castellano osserva anche come quasi tutti gli interventi ruotino attorno alla presenza del corpo (“quasi tutti gli scritti hanno in comune una riflessione o comunque un’intuizione interpretativa sull’uso/presenza del corpo nell’opera di Schrader”), in quanto i corpi dei protagonisti dei suoi film “sembrano la tangibilità dell’incorporeo, la materializzazione del trascendente (…) incarnano un’immanenza della trascendenza”.
Gli interventi, firmati tra gli altri da Vito Attolini, Massimo Causo, Bruno Roberti, Tonino De Pace, Roberto Silvestri, Fabio Zanello, coprono l’intero arco produttivo di Schrader. Si va dall’attività di sceneggiatore al rapporto con la cultura europea, dalla trilogia “pornografica” (Hardcore, Autofocus, The Canyons) al periodo “oscuro” tra metà anni ’90 e metà 2000 (in pratica, dal televisivo “Witch Hunt” a “Dominion”), dal discorso amoroso a un articolo di Fabio Maiello sulla musica in Schrader, e via via riflessioni su singoli film, come Blue Collar, Affliction, Cat People, Il nemico invisibile, The Canyons, La luce del giorno e il rapporto con Bruce Springsteen. E Castellano conclude la sua introduzione paragonando Schrader a “un austero personaggio bressoniano catapultato in un trasgressivo mondo tarantiniano”.