di Renato Venturelli.
Dopo la svolta di “Le p’tit Quinquin”, Bruno Dumont punta ancor più sull’effetto delirante e grottesco, spiazzando ulteriormente gli spettatori da festival. Stavolta ci porta sulla costa settentrionale della Francia d’inizio ‘900, dove i turisti di città arrivano nelle ville dagli stili più bizzarri, mentre la gente del posto si aggira servile e minacciosa tra gli alti e bassi delle maree. Siamo quindi su terreni apparentemente in linea con l’opera precedente del regista: il Nord della Francia, i riferimenti alla pittura tra ‘800 e ‘900, i rapporti di classe, la fisicità brutale, solo che i riferimenti narrativi sono completamente (e liberamente) rovesciati, in un misto di commedia nera, poliziesco, horror, rievocazione d’epoca, pittura e fumetto.
Dumont dice di essere partito da alcune immagini d’epoca, e tra queste una fotografia in cui i buoni borghesi di città venivano traghettati da una spiaggia all’altra letteralmente a braccia dai pescatori locali. Anziché salire sulle imbarcazioni, venivano presi in braccio uno per uno e spostati da un punto all’altro come corpi inerti, in un’immagine grottesca, in cui da una parte c’era un uso servile della forza fisica, dall’altra una sorta di inutilità infantile e parassitaria.
Ma nel partire da quell’immagine che sintetizzava un preciso quadro sociale, Dumont costruisce poi tutto un mondo, tra riferimenti storici e folli degenerazioni. C’è la famiglia di pescatori che ha l’abitudine di stordire i turisti, portarli nella loro casupola e mangiarli, in un ordinario cannibalismo quotidiano in cui i bambini sgranocchiano dita e orecchie gettate in un secchio. Dall’altra parte c’è una famiglia dell’alta borghesia composta da personaggi schizzati e nevrotici (ad interpretarli, Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi, Juliette Binoche…). E in mezzo c’è il grasso poliziotto di città venuto col suo assistente, due figure dall’impatto quasi fumettistico, subito paragonate ai Dupont e Dupond di Tintin. Il poliziotto rotola come una palla ogni volta che deve scendere lungo una duna della spiaggia, in altre scene ci sono personaggi che volano, e c’è pure una strana storia d’amore tra il figlio rozzo dei pescatori e il rampollo della casa borghese, sempre indistinto tra mascolinità e femminilità.
Il film riportava Dumont in concorso, dopo essere stato confinato alla Quinzaine per “Le p’tit Quinquin”: ma le reazioni sono state opposte. Accolto con attenzione dalla critica francese, con scetticismo scostante da quella italiana, più generalmente in un misto di incertezza e diffidenza. Eppure è film di prepotente originalità, realizzato con la consueta precisione di regia e di messinscena, reinventando in purissimo cinema le fitte citazioni pittoriche d’epoca (meravigliosi bianchi di una processione…), puntando moltissimo sui corpi degli attori, con un Luchini costretto a rimettersi in gioco in un’interpretazione genialmente astratta dopo che al cinema sembrava ormai rinchiuso in una sua formula media, impeccabile, sempre uguale a se stessa. Nel panorama opaco e ripetitivo dei film da festival, un’opera originalissima, tutta giocata su una tavolozza opposta rispetto ai primi Dumont, ma per certi versi nel pieno solco della sua poetica e dei suoi temi: tra le sorprese del festival, anche se nella scia del Quinquin televisivo.
(renato venturelli)