di Renato Venturelli
Tra i nomi più discussi di Cannes 2016 c’è immancabilmente lui: Nicolas W. Refn, amato dal pubblico di ventenni ma al tempo stesso respinto da buona parte della cinefilia da festival. Alla proiezione per la critica è stato accolto tra fischi, urla e sghignazzi, ma dietro l’indubbia volontà di provocazione un po’ gratuita e autocompiaciuta, Refn prosegue in “The Neon Demon” lungo la linea di un formalismo chiuso, astratto, forse anche un po’ vuoto come dicono accusatori, ma che ci intriga sempre per la sua concezione sostanzialmente, e splendidamente, amorale del cinema.
Qui lavora sull’iconografia del thriller post-De Palma, su corpi collocati in spazi rarefatti, partendo dall’universo patinato e feroce dell’alta moda. L’immagine di partenza è quella della protagonista (Elle Fanning) trasformata in una statua insanguinata, una bambola di carne ricoperta di sangue che esercita la sua multipla natura di immagine convenzionale davanti all’obiettivo di un fotografo amatoriale: perché da una parte è icona da genere thriller-erotico, dall’altra è un oggetto da fotografare all’interno del meccanismo narrativo. E la vicenda raccontata dal film è quella di una ragazza che va a Los Angeles per sfondare come modella, vive in un anonimo motel e si fa subito notare come esempio di “bellezza naturale” rispetto alle top model costruite come donne bioniche: ma in quel mondo di invidie e carrierismi, la sua bellezza rischia di fare una brutta fine…
Le convenzioni del genere para-musical “carriera nel mondo dell’alta moda” sono però solo un punto di partenza, per un film che ruota tutto attorno all’immagine, all’artificio, all’inquadratura splatter della bellezza insanguinata. E’ un gioco assolutamente astuto che parte dall’estetismo più estenuato per giungere al cannibalismo: e con tanto di sequenze sconcertanti, come quella del puma nella stanza del motel, al tempo stesso presenza onirica, reale, simbolica, semplicemente provocatoria… A Refn non viene forse perdonata la pretenziosità sempre un po’ ovvia del suo approccio teorico, l’astuzia del suo lavoro di terzo e quarto grado sulle immagini già chiuse in una loro convenzionalità: ma è anche vero che il risultato ha aspetti visivamente sontuosi proprio a partire dal gioco ostentato di superfici.
(renato venturelli)