di Massimo Lechi.
In una selezione da sempre ampia e ricca come quella del Thessaloniki Documentary Festival – Images of the 21st Century può capitare di trovare, accanto ad anteprime mondiali ed europee di richiamo, a vecchi documentari sperimentali di attempati registi protagonisti delle retrospettive o a film già abbondantemente premiati e celebrati altrove, titoli che, nei mesi precedenti, sono passati inosservati, sfuggendo all’attenzione generale nonostante la presenza nei cataloghi più prestigiosi. Oggetti nascosti, cui vengono offerte vere e proprie occasioni di riscoperta.
Anche il franco-cambogiano Rithy Panh, con il nuovo documentario La France est notre patrie, il primo dopo L’immagine mancante (2013), ha avuto dunque la sua vetrina greca a Salonicco. Presentato in anteprima al Festival du film et forum international sur les droits humains di Ginevra e proiettato poi a Yamagata e Torino, il film ricostruisce la parabola storica dell’Indocina francese, concentrandosi sul rapporto tra le popolazioni asiatiche sottoposte alla dominazione europea e i loro colonizzatori. Strumenti prescelti sono le immagini d’archivio, che testimoniano il mortifero e irrisolto incontro tra culture incompatibili, un abbraccio forzato e insincero la cui unica conseguenza possibile non poteva che essere il sangue.
La France est notre patrie inizia con le morbide riprese di una costruzione coloniale semidistrutta in mezzo alla vegetazione: inquadrature a colori, contemporanee, che introducono lo spettatore al crollo inesorabile di un mondo nel quale due anime – quella occidentale e quella orientale – dopo un precario e prolungato contatto hanno finito col ferirsi e respingersi. Prosegue poi con i materiali d’archivio, senza alcun commento al di fuori della musica e con beffarde didascalie da cinema muto a interrompere il flusso della Storia. Leggiamo frasi altisonanti che esaltano il colonizzatore e gli effetti benefici del suo dominio. Sentiamo note da sala da ballo che accompagnano l’ingresso in campo di pizzi e merletti all’ombra di palme ed elefanti. In rigoroso bianco e nero, sfilano davanti ai nostri occhi signori barbuti in calesse, dame che lanciano briciole di pane a bambini nudi, lavoratori di fabbriche e officine sovraffollate, ambulanti in abiti occidentali, nativi a torso nudo che abbattono alberi e estraggono il caucciù sotto lo sguardo benevolo del padrone, e persino modelle bionde in posa tra le rovine di Angkor. L’incongrua presenza dell’uomo bianco in Indocina viene ripercorsa attraverso un montaggio lineare, una sequenza rapida di situazioni spesso quotidiane, di grande semplicità, quadretti in cui i soggetti – “civilizzatori” e “civilizzati” – si muovono con assoluta naturalezza sul filo del paradosso. Al progressivo sgretolamento dell’impero coloniale francese corrisponde l’aumento della violenza sullo schermo. Soldati, guerriglieri, uccisioni, corpi: è la guerra di resistenza, la ribellione, l’atto conclusivo di una storia di sfruttamento sulla quale tuttavia risulta impossibile esprimere un giudizio univoco, duro, tranciante. Non esiste una storia universale, ci viene ricordato, prima che tutto diventi nero.
In La France est notre patrie l’immagine parla, racconta, rievoca – a tratti – come in un sogno. Il montaggio è la voce di un regista che, ancora una volta, riflette in libertà su un secolo, il Ventesimo, quello delle guerre mondiali, dell’Olocausto e dei massacri di Pol Pot, segnato dalla morte di ogni illusione, di ogni utopia. Scampato per un soffio ai campi di sterminio dei khmer rossi prima di riparare proprio in Francia, l’ex “madrepatria” divenuta nel frattempo terra di pace e libertà, Rithy Panh non ha mai smesso di guardarsi indietro. Tutto il suo cinema è incentrato sulla tragedia della Cambogia, sulla sofferenza di un popolo devastato e di una cultura compromessa. In quest’ultimo piccolo e potente film il tema dell’identità trova espressione in immagini “belle e tossiche” – come recita la scritta finale, citazione di Christophe Bataille – che suscitano stupore e rabbia, e velano lo sguardo di un’indefinibile malinconia, rimandando a un’epoca lontana di cui non restano che rovine. Un’epoca perduta.
Massimo Lechi