di Massimo Lechi.
Turchia, giorni nostri. Il barbuto Kadir (Mehmet Ozgur), rinchiuso in carcere per reati imprecisati, viene liberato dopo diciotto lunghi anni. Ad accoglierlo, in uno scenario allucinato e fatiscente, rombi di motori, spari e macerie.E una nuova condanna, una nuova forma di prigionia ancor più subdola e minacciosa. Hamza (Mufit Kayacan), il viscido ufficiale di polizia che ha ordinato la scarcerazione, ha infatti posto condizioni capestro: Kadir dovrà ripresentarsi nel suo quartiere, abbandonato anni prima, fingersi spazzino, spiare chiunque gli capiti a tiro, famiglia compresa, e scovare prove di attività sovversive. Dalla puntualità e dalla qualità dei resoconti dipenderanno il suo futuro nel mondo libero, e la sua vita.
Tornato a Istanbul, Kadir riabbraccia il fratello Ahmet (Berkay Ates), un bambino ai tempi del suo arresto e oggi cacciatore di cani randagi. I due – ex carcerato in cerca di bombe nascoste nella spazzatura il primo, triste impiegato comunale abbandonato dalla moglie il secondo – tentano di ritrovare l’unità familiare perduta, mentre fuori, nelle strade, avanzano camionette di sbirri senza volto in tenuta antisommossa, e boati improvvisi squarciano il silenzio notturno. Ben presto la paranoia si impadronisce di entrambi, spingendoli rapidamente verso una fine tragica.
Frenzy (Abluka) era uno dei titoli più misteriosi del concorso di Venezia 72, tra i più attesi dai cinefili duri e puri, e di certo non ha deluso. A tre anni da Beyond the Hill (Tepenin Ardi), Emin Alper si è confermato regista coraggioso, strappando applausi e un Premio Speciale della Giuria (il secondo consecutivo al cinema turco, dopo l’exploit di Kaan Mujdeci lo scorso anno) che vale come consacrazione internazionale definitiva. Tuttavia, chi ama le grandiose costruzioni cinematografiche di Nuri Bilge Ceylan o gli stremanti – ma indiscutibilmente affascinanti – affreschi della Turchia profonda di Semih Kaplanoglu resterà con ogni probabilità interdetto. Lontano tanto dall’umanesimo dei capolavori ceylaniani quanto dai paesaggi mozzafiato di Bal, il cinema di Alper sembra innanzitutto voler aggredire il presente con le armi più potenti – e i trucchi più plateali – del mezzo, cedendo a tratti all’esibizionismo.
Totale è qui l’adesione della narrazione al crollo psichico di Kadir e Ahmet, meccanica la discesa nel delirio. Il racconto, inizialmente lineare, si avvita e attorciglia sequenza dopo sequenza, con rapidità sconcertante, richiudendosi inesorabile su se stesso e sullo spettatore. I personaggi si perdono nel labirinto di complotti immaginari, sospetti, proiezioni e allucinazioni, si dibattono in solitudine, fino a soffocare. E con loro il film, che non a caso si apre con un’esplosione e termina con una pistola puntata nella notte, in una circolarità di violenza e distruzione a dir poco asfissiante.
Nella spettrale Istanbul di Abluka tutto scricchiola, sussulta, pare sul punto di cedere. I lampioni si spengono, cumuli di rifiuti si trasformano in falò, cani vagano per strade deserte mentre cittadini smarriti bevono e fumano in scantinati bui e intere famiglie scompaiono senza spiegazioni plausibili. La città diventa luogo di morte e il singolo, braccato e manipolato dal potere, non può che lasciarsi risucchiare in una spirale autodistruttiva. Non c’è speranza, non c’è possibilità di fuga.
Prendere o lasciare, dunque. Ma è indubbio che l’opera seconda di Alper sia di quelle che non si dimenticano facilmente.
Massimo Lechi