di Juri Saitta.
Cinque anni dopo Essential Killing, il regista polacco Jerzy Skolimowski ritorna in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con 11 Minutes, un action-thriller tanto adrenalinico e spettacolare sul piano formale quanto teorico e complesso su quello semantico.
L’opera racconta in circa un’ora e venti molteplici storie che si svolgono contemporaneamente e nell’arco di undici minuti: quella di un marito geloso; di un venditore ambulante di hot dog; di uno spacciatore cocainomane; di una donna che porta a spasso il cane; di un ragazzino intenzionato a fare una rapina, ecc.
La forte contrapposizione tra la durata del film e quella della vicenda rende assolutamente evidente la volontà dell’autore di dilatare il tempo della seconda, mantenendo però un ritmo vorticoso e a tratti frenetico. Un’operazione riuscita in primis grazie a una regia e a un montaggio dinamici che cambiano costantemente spazi e angolazioni di ripresa, ma anche a una narrazione che alterna continuamente i molteplici racconti incrociandoli solo nel finale. Ed è proprio per quest’ultimo aspetto che 11 Minutes è stato interpretato soprattutto come un film sul destino che lega casualmente storie e persone diverse.
Una lettura sicuramente corretta che l’opera rende esplicita in diversi momenti, anche se in realtà Skolimowski sembra riflettere in modo più sotteso, implicito e radicato sulla moltiplicazione e sull’annullamento reciproco delle immagini nell’epoca del digitale.
In tale direzione non è un caso che all’inizio le storie vengano introdotte da riprese realizzate con mezzi differenti e tradizionalmente non cinematografici: l’obiettivo di un cellulare, camere di video sorveglianza e quelle di un computer. Successivamente, l’opera utilizzerà un formato più conforme e comune, ma mostrerà comunque personaggi che si riprendono e si guardano, dal regista che filma un provino di un’aspirante attrice alla coppia che assiste a un video pornografico su Tablet.
In questo modo, il cineasta ci mostra le infinite possibilità di produzione e di fruizione delle immagini nell’era contemporanea, ma – tramite un finale in cui lo schermo diventa grigio fino a non mostrare più niente – ci avverte anche del loro annullamento reciproco, comunicandoci che il tutto, forse il troppo, diventa il nulla.
In fondo, anche la narrazione segue tale strada: le vicende rappresentate sono moltissime, ma assolutamente frammentarie, così come i loro protagonisti, dei quali sappiamo poco e, talvolta, quasi niente.
Qui l’autore moltiplica storie, azioni e immagini per annullarle completamente nel doppio e simbolico finale, in un’opera che ci mostra molto e poco al tempo stesso, riflettendo così su un’epoca in cui la produzione è troppa e troppo consumata per potersi conservare e non smarrirsi in un’infinità che disperde ogni elemento.
11 Minutes porta dunque avanti un discorso ormai non più nuovo, in quanto già intrapreso da altri registi con altri film (in primis De Palma e il suo Redacted, che direzionava tale ragionamento sulla ricerca impossibile della verità), ma lo fa coniugando abilmente stratificazione tematica e godimento spettacolare, in quella che è un’opera dalle evidenti qualità formali e registiche. Anche per questo uno dei film migliori della 72a Mostra di Venezia.
(di Juri Saitta)