di Massimo Lechi.
Xavier Racine (Fabrice Luchini) è tutt’uno con la pelliccia d’ermellino che indossa in aula. Presidente di Corte d’Assise nel desolato e grigio nord della Francia, ha fama di giudice a “doppia cifra”, nel senso che le condanne che rifila agli imputati non sono mai al di sotto dei dieci anni. Intransigente e pignolo, vive i dibattimenti come rappresentazioni teatrali durante le quali è lui stesso a dominare la scena, senza rivali.
Un giorno, si trova tra le mani un caso spinoso: il presunto omicidio di una bambina, forse uccisa a calci dal padre – che rifiuta di testimoniare e rilasciare dichiarazioni – in uno scoppio di rabbia. Ma a sconvolgere Racine, più che la tragica fine della piccola e l’atteggiamento inquietante dell’accusato, è l’apparizione, tra i giurati popolari, di Ditte (Sidse Babett Knudsen), l’angelica anestesista che anni prima lo aveva salvato da un brutto incidente, facendolo innamorare perdutamente. Travolto dal ricordo, a contatto visivo prima e fisico poi con la donna, sente riemergere, implacabili, i sentimenti di un tempo, mentre sul suo palcoscenico si consuma una tragicommedia processuale dall’esito sempre più incerto.
Scritto con maestria e diretto con felpata eleganza, L’hermine di Christian Vincent è uno dei pochi titoli del concorso di Venezia 72 ad aver messo d’accordo pressoché tutti – persino i detrattori più accaniti del cinema d’Oltralpe. Merito di una sceneggiatura di ferro, capace di alternare con disinvoltura i ritmi serrati del dramma giudiziario e la paciosa tenerezza di una commedia sentimentale di uomini e donne all’ultima occasione. Colpiscono, poi, la sapienza con cui il regista de La timida calibra i toni e dirige la sua orchestra di personaggi, un piccolo ma studiatissimo segmento di umanità nel quale riescono a trovare posto lo charme stropicciato di un giudice con il raffreddore, la sensibilità materna di una bella fata scandinava, l’astuzia dei cinici avvocati di provincia, la sincerità maldestra dei testimoni alla sbarra e la vitalità di una giuria a dir poco eterogenea.
Niente effettismi alla Leconte dunque, bensì un gioco di sfumature di scrittura, la cui riuscita, com’era inevitabile che fosse, deve moltissimo a uno straordinario Fabrice Luchini. Riprendendo il suo eterno ruolo di colto misantropo, l’attore francese si mette infatti al servizio del film, dando corpo ed energia ad ogni situazione, ad ogni battuta (splendidi i duetti nel caffè con la Knudsen). La sua prova, misurata e al contempo incontenibilmente virtuosistica, è un saggio di recitazione in grado di giustificare qualsiasi lieto fine.
Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile e premio per la miglior sceneggiatura: due riconoscimenti – gli unici, forse – oggettivamente incontestabili.
Massimo Lechi