di Renato Venturelli.
Il festival di Cannes si avvia verso la conclusione, allineando altre delusioni (Marguerite & Julien di Valérie Donzelli, pompatissimo dai francesi), film che convincono (Mountains May Depart del cinese Jia Zhang-ke), lasciano sostanzialmente indifferenti (Youth di Sorrentino) o entusiasmano una ristretta cerchia di cinefili (The Assassin del redivivo Hou Hsiao-Hsien).
Le grandi attese erano ovviamente per Deephan di Jacques Audiard, anche perché gioca in casa. Il regista di Il profeta racconta una storia di emigrazione, con un uomo e una donna che scappano dallo Sri Lanka in fiamme, prendono con sé una bambina orfana per simulare una famiglia e arrivano in Francia con falsi documenti. L’uomo è cupo, concentrato e misterioso, la donna vuol solo scappare in Inghilterra da altri parenti, la bambina viene sballottata tra i due finti genitori.
Ma la svolta del film sta nel fatto che non si ripercorrono gli abituali cliché del cinema d’immigrazione, tra denuncia e patetismi, per fare invece sprofondare il racconto in uno scenario ai confini della realtà: un quartiere di giganteschi palazzoni alla periferia di Parigi, dove tutto è regolato dalle bande di narcotrafficanti che vi si sono installate, e il protagonista immigrato si ritrova a fare il portiere, silenzioso ed efficace, a suo modo rispettato. Anche serissimo: quando si lamenta per l’incomprensibile umorismo dei francesi, la finta moglie gli ricorda che non è una questione di humour francese, ma di carattere personale (“tu proprio non capiresti nessun tipo di umorismo in nessuna nazione”).
L’abituale film d’immigrazione assume così i tratti di un’originale epica contemporanea, facendo a poco a poco affiorare i rapporti tra i personaggi, ma stabilendo anche una fitta trama di relazioni in questa terra di nessuno dove la polizia e lo stato non sembrano mai penetrare. Il risultato ha una sua intermittente energia, ed è curiosa anche la storia personale del principale interprete Jesuthasan Anthonythasan, nella parte del tranquillo immigrato che si rivela essere stato in passato un durissimo guerrigliero Tamil. Anche Anthonythasan era stato arruolato a sedici anni tra le Tigri dell’esercito di liberazione Tamil, aveva combattuto per anni, quindi era arrivato nella Francia degli anni ’90, aveva ottenuto asilo politico, affermandosi poi come scrittore sotto il nome di Shobasakthi mentre campava con una serie di lavoretti (Gorilla, 2001; Traitor, 2004; ecc). Tra le sue (scarse) esperienze precedenti d’attore, quelle in patria col teatro di strada Tamil, in cui interpretava pièce di propaganda davanti ai passanti.
Poco da dire invece su Chronic del messicano Michel Franco, vincitore tre anni fa di “Un Certain Regard” con l’angoscioso ma sopravvalutato Despues de Lucia e promosso ora al concorso con un film rigidamente programmatico. Al centro, un assistente medico a domicilio, che cura malati terminali, diventa in pratica il loro principale punto di riferimento anche affettivo, ma prende talmente a cuore i singoli casi umani da andare al di là dei suoi compiti professionali, lasciando intendere di avere storie private personali alle spalle che lo spingono a un particolare coinvolgimento. Le immagini scrutano senza pudore corpi sofferenti, situazioni umilianti e dolorose, ma sono sempre composte in una fredda asetticità: e a questo contribuisce anche l’interpretazione di Tim Roth, il cui understatement è così ostentato da risultare, al contrario, fin troppo caricato.
(Renato Venturelli)