FESTIVAL DI CANNES 2015 – Cannes Diari 7 – Huppert, Depardieu, Cotillard…

valley of lovedi Renato Venturelli.
Arriva l’ammucchiata di star per il finale di festival.  Valley of Love di Guillaume Nicloux è l’opera forse più pomposa dell’intero concorso, col grande confronto divistico tra Isabelle Huppert e Gérard Depardieu. I due sono coniugi separati che si rivedono in un albergo ai confini della Death Valley, in California, riuniti da una lettera in cui il loro figlio annuncia il proprio suicidio: per due ore passeranno il tempo a esibire i loro corpi tra gli spazi e i tempi morti dell’hotel o nelle lunghe camminate in mezzo al paesaggio desertico che li circonda. L’operazione è ambiziosa, ma anche assolutamente artificiosa: nonostante gli ovvii pezzi di bravura dei suoi interpreti, resta una sorta di pretesto magniloquente per una montée des marches del weekend.

Convince poco anche il Macbeth di Justin Kurzel, che ci trascina nella tragedia di Shakespeare con stile programmaticamente viscerale: anche in questo caso, puntando su un cast internazionale, che va da Michael Fassbender alla Lady Macbeth di Marion Cotillard.  Crescono invece quanti pensano che buona parte del meglio del festival si sia svolta nelle sezioni laterali, dove erano presenti nomi di culto della cinefilia più oltranzista scartati dal concorso ufficiale. E’ comunque l’occasione anche per ripensare alcuni dei titoli più trascurati di queste sezioni, mai davvero presi in considerazione per opposti motivi, ma degni d’attenzione.

Due, in particolare, i titoli francesi “minori” ma non troppo. Alla Semaine de la Critique s’è visto Ni le ciel ni la terre di Clément Cogitore, curioso film ambientato tra i soldati francesi di stanza in Afghanistan. In un contesto militare analogo ad altri film bellici sull’argomento, il film sviluppa infatti una storia anomala: ogni notte, qualche soldato addormentato in tenda scompare nel nulla, e le indagini non riescono a chiarire di cosa si tratta. Sono stati rapiti e uccisi dai guerriglieri? Oppure sono stati inghiottiti da qualche figura leggendaria  “nella terra di Allah”?  Il film d’ambientazione bellica comincia così a scivolare su un piano di incertezze, sul mistero di scomparse inspiegabili, sui buchi che vengono improvvisamente ad aprirsi nella storia e non trovano motivazioni razionali.

E a “Un Certain Regard” s’è vista un’altra variazione francese sul cinema di genere, in questo caso realizzato da una regista al suo secondo lungometraggio: Maryland di Alice Winocour.  E’ una storia di reduci, di guardie del corpo, di angosce e ossessioni che impediscono di percepire la realtà nel suo insieme, ma solo attraverso dettagli minacciosi. Matthias Schoenaerts è un soldato rientrato sotto stress da una missione in Afghanistan, che trova lavoro come bodyguard e viene incaricato di fare da guardia del corpo per qualche giorno alla moglie e al figlio di un ricco libanese. Percepirà immediatamente la minaccia di misteriosi sicari, in un film tutto raccontato dal suo punto di vista, attraverso la continua tensione fisica e psicologica che lo possiede dall’interno, ma che ha poi ragione d’essere in inseguimenti, assedi e sparatorie in cui effettivamente si concretizzano le sue paure.  “L’idea del film d’azione è venuta dal personaggio, ma avevo anche voglia di affrontare un territorio generalmente riservato agli uomini, quello del film di genere. C’è sicuramente nella mia scelta l’idea di riaffermare che ‘tutto è permesso’ per le registe di oggi” dice Alice Winocour. E il film è impeccabile per tensione, movimento, ritmo: una piccola riuscita, generalmente accolta con indifferenza a Cannes.

(Renato Venturelli)

 

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