di Antonella Pina.
“Jimmy’s Hall”, oltre ad essere il titolo del l’ultimo film di Ken Loach, era la sala che James Gralton costruì negli anni ’20 a Effrinagh, nella contea di Leitrim, in Irlanda. La costruì perché i giovani potessero avere un luogo in cui ballare, suonare, dipingere, leggere: una sala dalle molte funzioni. Gralton era emigrato negli Stati Uniti nei primi anni del ‘900 a causa dell’estrema povertà in cui versava la sua famiglia. Tornò per combattere la guerra di indipendenza e si trovò coinvolto nella sanguinosa guerra civile che a questa fece seguito. Costruì la sala da ballo nel tumulto di quegli anni. La chiesa cattolica, abituata ad avere il controllo su tutte le attività, bollò come immorale il locale e ne pretese la chiusura. Per questa e per altre ragioni legate alla guerra, Jimmy dovette tornare negli Stati Uniti.
Rientrò in Irlanda dieci anni dopo, negli anni ’30, per aiutare la madre ormai anziana, pensando di poter restare per sempre. Riaprì la sala e questa volta gli oppositori, fomentati e sostenuti dalla chiesa cattolica, bruciarono il locale. Jimmy venne espulso dal paese con l’accusa di immigrazione clandestina e rimpatriato negli Stati Uniti con il divieto di poter tornare. Da questa vicenda realmente accaduta Loach, “il regista combattente”, ha tratto un film. Lavorando sulla storia di Gralton poteva affrontare alcuni temi a cui il suo cinema presta sempre molta attenzione: le vessazioni subite dalle classi sociali più deboli; le lotte per la libertà e il lavoro; l’arroganza e la cecità del capitalismo; il potere repressivo della chiesa; l’entusiasmo che anima i giovani.
Nonostante si tratti di una storia drammatica, “Jimmy’s Hall” non è un film cupo: c’è molta allegria, molta musica e voglia di ballare, c’è una storia romantica e perfino un po’ di ironia. Non è un film anticattolico, non completamente: il giovane Padre Seamus è molto amareggiato dagli eventi e gli sentiamo sostenere che: “se Cristo tornasse sulla terra oggi, probabilmente verrebbe nuovamente crocifisso”. L’anziano padre Sheridan, molto bene interpretato dall’irlandese Jim Norton, spaventato dalla quantità di odio che lui stesso ha contribuito a diffondere, annega il suo orgoglio nell’alcol. E’ proprio padre Sheridan, insieme alla madre di Jimmy, il protagonista di uno dei dialoghi più surreali e ironici del film. Il prete va a far visita alla donna poco prima che il figlio torni dagli Stati Uniti. Lei lo riceve remissiva e un po’ intimorita ma con grande dignità, e gli prepara il tè. Lui, senza esplicitare nessuna minaccia, espone seraficamente quali dovrebbero essere i buoni comportamenti di Jimmy, le cose da fare e da non fare per il quieto vivere di tutti. Poi, dopo un profondo respiro di soddisfazione, sorseggia il suo tè e dice: “Dove saremo senza una buona tazza di tè!” E lei: “Persi nel nulla, padre”.
Il tè è una bevanda molto diffusa, seconda soltanto all’acqua. Si ottiene dalle foglie e dalle gemme apicali della Camellia sinensis, una delle 70 specie appartenenti al genere Camellia, a cui appartiene anche la Camelia comune, la nostra pianta da vaso o da giardino, che un gesuita del XVII secolo portò in Europa dal Giappone. E’ quindi una pianta sempreverde che cresce nella fascia compresa tra l’equatore e una latitudine di circa 45°, fino a 2200 m sul livello del mare, anche se le coltivazioni migliori si trovano a 1800 m. Esistono tre tipi di tè: verde, oolong e nero. Non si ottengono da piante diverse ma da diversi modi di lavorare le foglie.
Il tè è nato in Cina, dove la Camellia veniva coltivata già 2000 anni fa. Da lì ha raggiunto il resto del mondo: i veneziani lo conobbero nel XVI secolo, ma solo come medicina contro la gotta. Furono gli olandesi a diffonderlo in Europa. Oggi è l’India la più grande produttrice ed esportatrice di tè, la coltivazione venne introdotta dagli inglesi attorno al 1830. Altri produttori sono lo Sri Lanka, la Russia e il Kenya. I giapponesi producono tè eccellenti destinati all’elevato consumo interno, solo una piccola parte viene esportata. Il tè contiene caffeina, una sostanza stupefacente in quanto psicoattiva, anche se blandamente. Può diventare letale solo se si superano i 150mg/kg. L’assunzione della bevanda è diffusa in tutto il mondo ma in Inghilterra e in Giappone è diventata un rito, una necessità, uno stile di vita.
Per i giapponesi, secondo quanto scritto nel “Libro del tè” di Okakura, “è più di una idealizzazione della forma del bere; è una religione dell’arte della vita”. La cerimonia del tè è una cosa molto complessa che ha a che fare con il pensiero Zen e con il controllo che possiamo esercitare sulla nostra mente. Viene usato un prezioso e rarissimo tè: il tencha.
Gli inglesi bevono tè a colazione e anche a cena ma il rito si consuma con l’afternoon tea, il tè delle cinque, una tradizione iniziata dalla regina Vittoria nell’800. Prima di allora, secondo quanto raccontato da Goscinny e Uderzo in “Asterix e i britanni”, gli inglesi avevano comunque la necessità di assumere qualcosa alle cinque del pomeriggio, della semplice “acqua calda con un velo di latte”, e per farlo interrompevano qualsiasi attività, perfino le battaglie contro le guarnigioni romane. Comportamento, questo, deprecabile e alquanto bizzarro che determinò la loro sconfitta e l’umiliazione di dover ricorrere all’aiuto dei galli. Ma Goscinny, autore della storia, era francese e come è noto i francesi non hanno una grande simpatia per gli inglesi, quindi la fonte va verificata. L’ora del tè, a cui anche Lewis Carroll dedica uno dei capitoli più belli del suo “Alice nel paese delle meraviglie” con la Lepre Marzolina e il Cappellaio matto, non ha nulla a che vedere con il pensiero Zen e la ricerca interiore, è piuttosto un’affermazione di identità, la certezza di esistere attraverso il perpetuarsi di una tradizione, una sorta di “prendo il tè, quindi sono”, un’àncora per non perdersi “nel nulla”.
A noi, che d’abitudine assumiamo la nostra dose di caffeina in piedi e frettolosamente davanti al banco del bar, non ci resta che la bellezza delle parole di Okakura e l’invito a riflettere sulla presunta superiorità dell’Occidente: “Oriente e Occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistare il gioiello della vita….Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose”.
Antonella Pina