di Massimo Lechi.
Il giovane favoloso è il film italiano che più di tutti ha segnato la parte finale di questo 2014. Un anno, bisogna riconoscere, complessivamente positivo per il nostro cinema, iniziato con l’Oscar a La grande bellezza e proseguito con l’inaspettato Grand Prix vinto a Cannes da Alice Rohrwacher e poi con la calorosa accoglienza riservata ai tre registi italiani in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
E proprio dal Lido l’ultima opera di Mario Martone ha iniziato il suo viaggio, culminato con un successo al botteghino che ha lasciato a bocca aperta.
Un film sul presente, si è scritto. Una biografia didattica à la Rossellini, ci si è affrettati a sottolineare. Ma Il giovane favoloso, interpretato da un grande Elio Germano, nel suo intrecciare immagine e parola, cinema e letteratura, sfugge alle facili etichette.
FilmDOC ha incontrato il regista napoletano e la sceneggiatrice Ippolita di Majo a Genova, in un’affollata Multisala America, in occasione della presentazione del programma di AgiScuola 2014/15. Ne è scaturito un dialogo intenso, dedicato in particolare al rapporto con la scrittura e l’immaginario del poeta, oltre che all’essenza stessa di un ritratto cinematografico sorprendente per vitalità e forza.
Partiamo dalla genesi del film. Voi avevate già lavorato da Leopardi a teatro, portando in scena le Operette morali allo Stabile di Torino.
I.d.M. Sì, l’adattamento lo avevamo fatto insieme, a quattro mani.
M.M. E l’idea del film è nata proprio perché, quando dovevamo fare le Operette morali, io e lei siamo andati a Recanati. La parte napoletana in realtà era presente in me già da molto tempo: dieci anni fa avevo fatto un lavoro teatrale su Leopardi a Napoli, e poi pensarlo lì nella mia città mi aveva sempre colpito molto dal punto di vista dell’immaginazione. Mentre al contrario non credevo che Recanati fosse come invece è, cioè ancora in gran parte com’era al tempo di Leopardi. Come tutte le cittadine marchigiane ha questi muri monocromi, con i mattoncini orizzontali… E la libreria della sua casa, con i libri sempre monocromi disposti invece in verticale… Mi dava la sensazione di una prigione borgesiana, diciamo. Quindi qualcosa di opposto a Napoli, però ugualmente significativo a livello cinematografico. Dico sempre che avevo l’omega di Napoli e poi mi è apparsa l’alfa di Recanati. A quel punto la tentazione di intraprendere il viaggio è stata forte.
Il film però, pur avendo una struttura narrativa cronologicamente lineare, non è un film biografico.
M.M. Sono d’accordo con te. Un film su Leopardi poteva essere impostato in mille modi: la vicenda della sua vita poteva essere montata persino completamente a rovescio, ad esempio. Però per noi era proprio una questione di alfa e omega. Abbiamo pensato che la cosa interessante fosse il viaggio, l’uscita dalla prigione e quindi anche la fatica di vivere. E poi l’arrivo a Napoli con tutto quello che avrebbe significato, cioè l’abbandonarsi di Leopardi alla città. In quel punto tu devi poter sentire l’abbandono, capire che lui non ha più niente da perdere, che le illusioni di gloria e d’amore sono alle spalle. Un andamento diacronico ci sembrava più giusto, tanto più pensando al finale con La ginestra, con la smaterializzazione del suo corpo… Tutto questo però non ci interessava da un punto di vista aneddotico. Intanto i luoghi sono tre, a cui io do interiormente tre titoli. La parte a Recanati si chiama “Entro dipinta gabbia”, verso de Le ricordanze dove lui parla della sua casa affrescata. La parte a Firenze è “Il pensiero dominante”, dal titolo di una delle cinque poesie del Ciclo di Aspasia: il pensiero dominante è l’innamoramento, questo sentimento schiacciante che a un certo punto si fa strada creando quasi un deserto e di cui lui sente la potenza. E poi la parte napoletana che è invece “Il filosofo indiano”. Quindi, al di là degli elementi biografici, nel film ci sono dei temi intorno ai quali si sviluppa un percorso che tende al rapporto con la scrittura.
In questo percorso le poesie sono delle pietre miliari.
M.M. E infatti non sono le nostre preferite: sono poesie scelte per ragioni narrative all’interno del film. Di volta in volta, abbiamo inserito quelle che potevano incastrarsi con il racconto delle vita e quindi creare tensione cinematografica. Tutto, insomma, era teso a fare un film e non un saggio. E nemmeno un film didattico…
Questa storia del cinema didattico viene fuori spesso, ultimamente…
M.M. Sì, ma è vero fino a un certo punto… Sai, fare film come questo sul passato è come fare film di fantascienza. Poi, certo, tutto può esser didattico.
“La svolta rosselliniana del cinema di Martone”.
M.M. Rossellini però è sempre stato presente, eh. Anche L’amore molesto dialogava con Viaggio in Italia per tante ragioni. I miei ultimi film dialogano con il Rossellini tardo, quello di La presa del potere da parte di Luigi XIV, di Blaise Pascal, di Socrate: un meraviglioso progetto che poi lui ha faticato a realizzare, e che è in parte riuscito e in parte no. Questo era un discorso che secondo me andava ripreso, cioè che la vita di Leopardi potesse diventare strumento di conoscenza e di emozione per il tempo presente.
A livello drammaturgico quanto ha influito il lavoro fatto per il film precedente? Noi credevamo si basava su un romanzo che poi tu hai adattato con De Cataldo, mentre qui invece voi avete fatto un’operazione diversa partendo da epistolari, poesie, prose e documenti. Nonostante le differenze però, mi pare che proprio Noi credevamo sia in qualche modo sempre lì, latente.
I.d.M Noi credevamo è il cantiere.
M.M. E’ il cantiere dove ho imparato a confrontarmi con la lingua dell’Ottocento. Quindi ci sono dei procedimenti che sono simili da questo punto di vista e che sono stati messi a punto lì. L’uso delle lettere nei dialoghi, per esempio: nel caso di Noi credevamo, ovviamente, erano le lettere di Mazzini ad essere fonte drammaturgica.
Usare la parola scritta è una cosa che hai sempre fatto. Penso a L’odore del sangue, alla sequenza in cui fai leggere a Michele Placido parti del libro che sta scrivendo.
M.M. La parola è cinema. Voglio dire: il cinema è molte cose, tra cui la parola. L’infinito è ne Il giovane favoloso perché prima c’è la scena del processo, la scena Dogma in cui Leopardi viene processato dal padre e dallo zio, e quindi si crea una tensione tale che consente di poter dire le parole della poesia senza che diventino meramente letterarie. Il cinema è anche musica, intesa come scrittura interna.
Sempre rispetto a Noi credevamo, ho notato delle differenze nello stile. Il giovane favoloso ha una regia decisamente più libera.
M.M. Sì, certo.
La stilizzazione, in Noi credevamo, ti portava a girare delle scene corali che sembravano riprese da sopra il palco di un’opera. Invece stavolta hai da una parte addirittura un certo realismo negli esterni e dall’altra delle vere e proprie impennate immaginifiche.
M.M. Il film è girato in grandissima parte a spalla, diversamente da Noi credevamo che aveva un uso maggiore di inquadrature fisse, da cavalletto. La scena Dogma di cui parlavo è fatta con stanza vuota, una sedia e luce unica, due macchine a spalla e nessuna indicazione agli attori, e quindi découpage che si va formando ciak dopo ciak. Lavorando così, senza indicazioni agli attori, sono venuti fuori più ciak molto diversi tra loro e dunque l’urlo di Giacomo che non è espresso ma solo pensato. Tutto questo però non era in sceneggiatura: si è formato dall’improvvisazione. Infatti le altre scene a Recanati non sono fatte secondo questo codice. C’è un lavoro sul linguaggio strutturato insomma – come poi piace fare a me…
Nella parte napoletana invece hai più colori. C’è una ricchezza maggiore.
M.M. Questo è dovuto a tante cose… Sai, a Napoli non ci sono personaggi: non c’è più una donna di cui Leopardi si innamora, non c’è più un rivale. C’è invece una natura, un insieme, una coralità che muove tutto. Non solo è diversa la città, ma è soprattutto diversa la sua percezione. E’ diverso lui, nella città. Non ci sono più i salotti di Firenze, perché a quel punto, a Napoli, conduce una vita randagia. Quindi lo stile di ripresa è impresso dalla materia, è come se fosse il personaggio di Leopardi a determinarlo. Per me è sempre così: lo stile non preesiste alla materia. Ed è per questo che i miei film sono molti diversi l’uno dall’altro.
Parliamo del personaggio. Il vostro Leopardi va contro lo stereotipo del gobbo infelice. Qui c’è un Leopardi energico, rabbioso, attivo. Quasi una forza centrifuga.
I.d.M. E’ un Leopardi bruciato di passione.
M.M. E’ quello che si voleva, che abbiamo provato a scrivere e su cui abbiamo lavorato con Elio. Senza naturalmente rovesciare la realtà, che comunque era quella di una persona malata. Cinematograficamente, la sfida era di tenere questi aspetti insieme. E non è facile: nel momento in cui mostri un uomo malato, la sua malattia c’è e non è che puoi far finta di pensare solo ai suoi versi, visto che c’è anche il suo corpo. Il punto è che questo corpo riesca a diventare potente nonostante la malattia. E quello di Leopardi, nonostante la malattia, è un corpo potente. A Napoli, ‘o ranavuottolo – il ranocchietto – è un segno, è qualcosa. I napoletani eleggono figure come quella a sovrani, a sciamani. Li dotano quasi di poteri magici. Se questo è ciò che è capitato a Leopardi, significa che il suo corpo sprigionava energia e tensione, non era il corpo inerte di un malato buttato su un letto.
Non è un corpo che determina, diciamo, l’implosione del poeta.
I.d.M. No, al contrario.
Però ha finito col limitarne e soffocarne la voglia di proiettarsi, di aprirsi al mondo. Fisicamente, intendo. Il desiderio di infinito non a caso aumenta più il film va avanti.
M.M. Più lui è malato, più la capacità di trasfigurazione è potente. E’ una delle cose che guida il film. Perciò sì, biografia, ma solo fino a un certo punto.
I.d.M. E’ la storia di un’anima. L’idea iniziale era questa.
M.M. Tu sai che Leopardi voleva scrivere un’autobiografia? Ne aveva scritto solo le prime due pagine e l’aveva intitolata Storia di un’anima. Ecco, noi abbiamo provato a fare la Storia di un’anima che aveva in testa Leopardi.
C’è la storia dell’anima, ma c’è anche la storia dell’uomo che si trova a vivere in perenne contrasto con la sua epoca.
I.d.M. Però l’anima ti dice della soggettività, del suo sguardo sul mondo.
M.M. Esatto, non è slegata da tutto il resto. Questo è un film il cui baricentro è costituito dalla sua anima, quindi all’interno del suo corpo, delle sue relazioni sociali, della sua famiglia, di tutto. Ciò che guida la macchina da presa è proprio l’anima.
Tutti i rapporti del vostro Leopardi sono contrasti. E mi pare sia il dubbio a far sì che ogni incontro sia scontro.
M.M. Sì, è chiaro, perché lui era contrastato già nella sua mente. Leopardi era uno che aveva una spinta contraddittoria continua: nelle Operette morali, fa dire a Tasso “la mia mente prende a cicalare”, come se nella testa avesse una folla di persone che discutono tra loro. Il dubbio è un metodo.
Forse anche per questo i pensieri fantasticanti, che tu risolvi nelle sequenze “poetiche” con Leopardi con l’armatura o alle prese con la Natura Matrigna, hanno sempre in sé un che di contrastivo. Anche nell’immaginazione c’è scontro. Non è mai evasione, liberazione. Il tormento c’è sempre.
M.M. Però questa è la sua immaginazione favolosa. Lui esce attraverso la trasfigurazione. Se tu leggi il Cantico del gallo silvestre nelle Operette morali, vedi che sono terribili le cose che dice sull’infelicità e sul nulla che attende non solamente ogni vita ma l’esistenza universale. Al tempo stesso, però, lì c’è la bellezza della scrittura. E’ come una lotta: lui oppone a tutta questa infelicità la creazione di una bellezza che esiste. Quanto esiste il nulla, esiste la bellezza delle parole che lo affrontano. Quindi sì, sempre conflitto e sempre contraddizione, però all’interno di una spinta alla creazione molto potente. Lui non si richiude mai. Alla fine, durante La ginestra, quando viaggia con la mente da Pompei alle stelle – che sono anche le stelle di tutta la fantascienza futura possibile – si muove all’interno di un orizzonte di libertà.
Forse c’è addirittura qualcosa di novecentesco in questo Leopardi. Nel modo in cui si relaziona al conflitto, soprattutto.
I.d.M. Ma poi forse non è nemmeno il dubbio, tra l’altro… Questo aspetto, chiaramente, dopo e grazie al Novecento lo vediamo con più facilità. Ma è più l’esposizione, la messa in evidenza delle conflittualità a essere centrale nella sua scrittura. Adesso si direbbe delle “ambivalenze”. Invece Leopardi, ricollegandosi da un punto di vista stilistico alla dialettica dei dialoghi illuministi, attraverso i personaggi o se stesso espone i pro e i contro, posizioni dialettiche completamente opposte e ognuna con le sue ragioni. Da questo conflitto nasce poi la creatività, la potenza creativa.
M.M. E da qui tutte le discontinuità – anche stilistiche – del film, che appunto non ha un andamento regolare. Anzi, molto irregolare.
Guardando quest’ultimo film mi è tornato in mente con prepotenza Morte di un matematico napoletano, lo spleen del Caccioppoli interpretato da Carlo Cecchi. Anche lui soffriva il suo tempo.
M.M. Morte di un matematico napoletano è un film che ha dei punti di contatto con Il giovane favoloso. A questo punto, mi verrebbe da dire che ormai tutti i film che ho fatto mi sembrano leopardiani, perché in tutti si racconta di una vitalità che cerca qualcosa e trova la disillusione. Ma Morte di un matematico napoletano lo è in particolare. E’ anch’esso la storia di un’anima.
Per Il giovane favoloso penso valga una bellissima riflessione contenuta in Manuale di pittura e calligrafia di Saramago. Lì il protagonista – pittore – dice sostanzialmente che tutto è biografia e tutto è autobiografia, e dunque ogni ritratto è un autoritratto.
M.M. Beh, sicuramente… (ride)
Ne eri del tutto consapevole mentre giravi?
M.M. Quando si fa cinema non può che essere così.
Anche quando si fa teatro?
M.M. Non per me, che non sono attore. L’attore che interpreta Amleto fa un autoritratto, mentre per un regista che lo dirige credo sia diverso. La posizione del regista, a teatro, è diversa. A teatro non c’è il corpo del regista. Al cinema sì.
Massimo Lechi