di Renato Venturelli.
Un bambino ossessionato dalla presenza di un mostro nella sua cameretta, una madre tutta sola che resta sempre più coinvolta nelle angosce del figlio, un essere minaccioso che prende corpo dalle pagine di un libro… “The Babadook” è un classicissimo horror psicologico, ma anche una variante “adulta” attorno ai suoi temi, che in patria è stato subito oggetto di grandi attenzioni critiche e sta rapidamente imponendosi in mezzo mondo. Lo ha diretto Jennifer Kent, attrice australiana (era anche in “Babe va in città”) che a un certo punto ha deciso di voler diventare regista, ha lavorato sul set di “Dogville” di Lars von Trier e adesso esordisce nel lungometraggio rifacendosi a un suo corto di una decina d’anni fa.
I protagonisti assoluti sono una madre e un figlio, che vivono in un rapporto ossessivo, anche perché il padre è morto in un incidente proprio mentre accompagnava la donna in ospedale per il parto e quindi il compleanno del bambino coincide immancabilmente con l’anniversario della morte del padre. Per un pezzo, il film va avanti seguendo le petulanti angosce del ragazzino, ma dal momento in cui i due leggono un libro illustrato sulle imprese di “Mister Babadook” (Ba-ba… Dook! Dook! Dook!) è la madre a rivelarsi sempre più posseduta dallo spirito malefico del personaggio.
Il crescendo segue poi le abituali scansioni dell’horror, inserendo però un percorso abbastanza originale nella presa di coscienza e nell’accettazione delle proprie paure, dei propri dolori, delle angosce più profonde e rimosse: ed è su questo terreno che il film è stato subito apprezzato un po’ ovunque, dal Sundance a Sitges alla lunghissima sequela di festival cui è stato invitato durante l’annata, fino ad approdare al concorso del TFF.
Ma c’è anche un aspetto involontariamente metaforico che “The Babadook” sembra suggerire, con le sue inquadrature accuratissime, la sua minuzia figurativa, i suoi ritmi visivi un po’ irrigiditi, più da graphic novel che da tradizione del cinema horror. E’ del resto uno dei grandi snodi di tanto cinema degli ultimi anni, condizionato da una concezione dell’immagine sempre più debitrice di una dimensione grafica illustrativa e da storyboard che risucchia anche i riferimenti cinematografici. Anche “The Babadook” sembra permeato da questo tipo di cultura figurativa (c’è anche il pop-up book di Mister Babadook concepito dall’illustratore Alexander Juhasz), e quando la protagonista finalmente vomita il mostro che sta cercando di impossessarsi di lei, è un vomito nero come l’inchiostro: come se il cinema dovesse liberarsi di questa “mostruosità” grafica e illustrativa, di questa mutazione che cerca di possederlo dall’interno, ma sia poi costretto nel finale del film ad accettare una forma di rassegnata ed equilibrata convivenza. (renato venturelli)