di Renato Venturelli.
Jean-Charles Hue continua a realizzare i suoi film sulla cultura, le abitudini e i corpi della comunità Yeniche del Nord della Francia, una popolazione di nomadi che hanno le loro origini nell’Europa germanica e si muovono fin dal medio evo tra Germania, Austria, Svizzera e Belgio, circondati da una fama minacciosa, sostenendo di essere gli ultimi eredi dei celti.
Agli Yeniche il regista francese ha già dedicato altri suoi film, ma in “Mange tes morts” il suo sguardo paradocumentaristico si sposta in modo sempre più esplicito verso la finzione. Il titolo si rifà a quello che è il peggior insulto possibile tra gli Yeniche, una vera e propria maledizione infamante: mangiare i propri morti, rinnegare la propria tradizione e le proprie radici. E nel film vediamo uno dei membri della famiglia tornare al suo clan familiare dopo quindici anni di prigione per omicidio, scontrarsi subito con altri esponenti della comunità e partire quindi per una notte brava lungo le strade insieme ad alcuni ragazzi, uno dei quali è proprio alla vigilia del suo battesimo e sta vivendo quindi una sorta di iniziazione alla vita adulta. Durante la folle scorribanda in auto ruberanno rame e benzina, si scontreranno con altri automobilisti, ingaggeranno sparatorie e inseguimenti furibondi con la polizia, sempre con la sensazione di essere usciti dai confini del proprio mondo per inoltrarsi in una terra che è ai loro occhi quasi straniera e nemica.
“Gli yeniche si sono sempre fatti più temere che ammirare per i loro talenti; la loro forza fisica e la loro resistenza al dolore sono sempre stati leggendari” dice Hue, che afferma anche di essere entrato in contatto con la comunità alla periferia di Parigi quasi vent’anni fa a causa del comune cognome della madre, Dorkel. In “Mange tes morts” permane il dato antrolopologico, l’attenzione a comportamenti e abitudini di una comunità divisa tra imprese illegali e fede religiosa (evangelista), ma in questo caso la ricerca di equilibri narrativi si sposta più avanti: e il film sembra quasi attingere a generi classici, dal western al noir, per raccontare una storia travolgente d’iniziazione notturna, dove viene portata al massimo la fisicità debordante, l’esplosività dinamica, l’istinto vitalistico dei suoi protagonisti velato da una sorta di malinconico isolamento, da un fiero isolazionismo che rischia di sconfinare in un senso di assedio senza futuro. Il risultato ha una sua cupa (e un po’ autocompiaciuta) potenza, anche perché tutto raccontato dall’interno di questi rapporti primari, che al tempo stesso isolano e proteggono la comunità rispetto a un mondo esterno di cui non vediamo mai lo sguardo. Già passato alla Quinzaine di Cannes, premiato dalla giuria come miglior film in concorso del 32° TFF.
(renato venturelli)