Da settembre una rassegna su Truffaut, Godard & Co, organizzata insieme alla Cineteca D. W.Griffith.
Come nacque l’avventura della Nouvelle Vague è cosa nota. Truffaut, Godard, Rivette, Chabrol e Rohmer, più Resnais, Doniol-Valcroze e qualche altro più o meno direttamente coinvolto – Demy, Varda, Malle – cominciarono a fare cinema intendendo la regia come espressione da autori, come quella che avevano ammirato in tanti registi soprattutto americani, i quali non si rendevano ben conto di essere autori, ma sicuramente erano felici di trovare qualcuno che li prendesse molto sul serio.
Come Nicholas Ray, ad esempio, il regista di Johnny Guitar: B-western dalla «sincerità assoluta» e dalla «sensibilità a fior di pelle», secondo l’opinione di Truffaut ventiduenne. Non si dirà mai abbastanza che non si trattò di una vera e propria scuola e neppure di un preciso movimento. Tuttavia, il comune intento di esprimersi più liberamente e con una realizzazione produttiva assai più agile, per essere appunto più liberi, fece sì che i nomi suddetti fossero spesso citati assieme.
Ma si possono davvero accomunare la vocazione narrativa, cinematografica quanto letteraria, di Truffaut con la ricerca militante e continua sul linguaggio dello schermo di Godard, che pure trasse il soggetto del suo primo film Fino all’ultimo respiro dallo stesso Truffaut, per farsi però dare, molti anni dopo, della merda in una famosa lettera? Destini davvero contrapposti i loro: il primo osannato come Autore massimo, con tanto di infanzia difficile e morte precoce, presenza d’attore e vittoria di Oscar con Effetto notte; e soprattutto cantore della tenerezza, dell’infanzia e della femminilità (temi già espliciti nel cortometraggio d’esordio Les mistons), nonché realizzatore del manifesto forse più esplicito del movimento, Tirate sul pianista. Il secondo amato e odiato come pochi altri per le sue inesauribili provocazioni estetico-culturali, più citato che visto, nonché premiato lui pure – è notizia recente – con l’Oscar nientemeno che alla carriera, da ritirare assieme all’altro premiato di quest’anno: Coppola (Francis).
Meno celebri sono stati a lungo Rohmer, l’anziano del gruppo, e Rivette, due cineasti ai quali la notorietà internazionale è arrivata non immediatamente, a differenza di Resnais e Chabrol, i cui film d’esordio si imposero imme-diatamente. Del primo Hiroshima mon amour ebbe un’immediata risonanza, ribadita subito dopo dal successivo L’anno scorso a Marienbad, vincitore a Venezia nel 1961; mentre I cugini di Chabrol si aggiudicò nel 1958 l’Orso d’oro a Berlino, costituendo di fatto l’anticipazione della Nouvelle vague, solitamente fatta risalire all’anno dopo con I 400 colpi. Ma anche nel caso loro è davvero difficile trovare affinità, semmai una precisa ostilità: Chabrol, che raggiunse «la rappresentazione fisica del sentimento e la traduzione dell’astratto in concreto», come ha precisato Aldo Viganò a proposito di Les biches, non ha mai nascosto la sua insofferenza per la letteratura della Duras e di Robbe-Grillet, cardini del cinema letterario di Resnais.
Infine, ci sono stati alcuni “comprimari”, ma con diritto affiorante di quasi protagonisti. Più dell’indipendente Louis Malle, sono stati Jacques
Demy e Agnes Varda, due che finalmente sono andati molto d’accordo, tanto da sposarsi. E anche sullo schermo: non foss’altro per avere immortalato due non dimenticate figure femminili, Lola e Cleo, nei film ominimi. Se tutti quanti abbiano lasciato un’eredità è questione retorica; già le loro lunghe carriere certificano la consistenza del loro cinema. Ma è soprattutto la leggera, soggettiva, vitalistica pratica cinematografica ad avere lasciato una direzione pressoché irreversibile al cinema tutto. Tanto che Hollywood visse il suo periodo più opaco proprio negli anni Sessanta, quando la Nouvelle vague mostrò tutta quanta la sua luce.