MOSTRA DEL CINEMA 2014 – The Postman’s White Nights di Andrej Končalovskij


di Juri Saitta.
Quest’anno il Leone d’Argento per la migliore regia è andato al cineasta russo Andrej Končalovskij per The Postman’s White Nights, film proiettato negli ultimi giorni della Mostra e che si è imposto come uno dei lavori più interessanti del concorso.
La vicenda è ambientata in uno sperduto villaggio del nord della Russia, dove un postino esegue le sue consegne spostandosi su una barca a motore per via dell’immenso lago che circonda il paese. L’opera narra dei suoi incontri, delle sue amicizie e dei suoi problemi.
L’aspetto del film che colpisce maggiormente lo spettatore è la maestosità del paesaggio, ripreso tramite dei campi lunghissimi che trasmettono in modo efficace e suggestivo l’immensità e la bellezza della natura che lo caratterizza.
Inquadrature che rimandano a qualcosa di mistico e trascendentale, in quella che è un’opera indubbiamente complessa e stratificata, sicuramente ricca di metafore e allegorie che si possono individuare e comprendere totalmente solo dopo diverse visioni.
Ciò che però si può notare subito – e che costituisce una prima linea interpretativa – è la copresenza di elementi opposti nel medesimo film. Quest’ultimo unisce, infatti, il documentario alla fiction (le storie risultano inventate, ma sono girate con le vere persone del villaggio); sequenze realiste a momenti surreali (il gatto che appare e scompare); inquadrature estese a dettagli sui fiori e sugli insetti; il racconto delle “banali” difficoltà lavorative di un individuo alla narrazione delle enormi ambizioni astronomiche dello Stato, rappresentate da un missile spaziale.
Dunque, The Postman’s White Nights è un’opera nella quale il reale si unisce alla fantasia, l’immensità al minimalismo, la quotidianità alle grandi aspirazioni, in un evidente tentativo di cogliere la complessità della natura e dell’universo.
Quello di Končalovskij risulta così uno sguardo quasi “ultraterreno”, che cerca di osservare da diverse angolazioni tutto e il suo contrario, uno sguardo che spazia dalla materia alla spiritualità, dalla realtà all’immaginazione.
In fondo, l’intenzione dell’autore – come afferma egli stesso nel catalogo della Mostra – è quella di realizzare un cinema contemplativo, un cinema che “frena” il ritmo narrativo per riflettere sull’uomo e su ciò che lo circonda e lo supera.
È proprio in tal senso che si spiega la lentezza del film, che ha però il difetto di girare talvolta un po’ a vuoto, perdendosi tra storie e osservazioni meditative. Risulta così evidente che qualche taglio in più sarebbe stato necessario.
Un’imperfezione comunque piuttosto irrilevante, soprattutto in un’opera tanto suggestiva quanto stratificata, dove anche la durata in eccesso fa parte della ricerca e della riflessione.

(di Juri Saitta)

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