di Aldo Viganò.
Guidato dall’interiore legge morale che gli impone di assumersi le proprie responsabilità, il capocantiere Ivan Locke viaggia di notte da Birmingham a Londra, solo nella sua tecnologica Bmw, mentre intorno a lui il buio diventa stellato per i riflessi luminosi creati dalla trafficata autostrada.
L’azzurro display del bluetooth della sua automobile si accende ininterrottamente, e dalle telefonate di Locke lo spettatore apprende il grovigliato intrecciarsi di urgenze che assillano quel giovane uomo prigioniero del proprio abitacolo, simile a un astronauta dell’esistenza.
Tormentato dal ricordo del padre che lo aveva abbandonato neonato, Ivan viaggia per raggiungere a Londra la donna che sta per dargli un figlio, dopo una sola notte trascorsa insieme da sconosciuti, sette mesi prima. Ma contemporaneamente, egli deve fare i conti con la propria famiglia e con l’urgenza del lavoro che la mattina seguente gli chiede di essere presente a Birmingham per “la più grande colata di cemento della storia d’Europa”. I figli l’attendono per assistere insieme all’attesa partita di calcio; la moglie reagisce molto male all’imprevista rivelazione del motivo di quel viaggio; il fedele collaboratore fa un po’ di pasticci nell’eseguire le disposizioni che Locke gli dà per telefono; i datori di lavoro decidono di licenziarlo sui due piedi per inadempienza contrattuale.
Lentamente, il mondo crolla intorno al protagonista, ma lui non modifica la rotta. La strada scorre veloce sotto le ruote della Bmw, che diventa sempre più il claustrofobico loculo di un’esistenza precipitata nel cratere aperto da una inderogabile scelta etica. Coniugato sul volto di un ottimo Tom Hardy e accompagnato dalle voci fuori campo dei suoi molti interlocutori telefonici (il doppiaggio diventa qui protagonista), il film di Steven Knight (già sceneggiatore di La promessa dell’assassino di Cronenberg) è tutto qui: reso avvincente da una scrittura molto dinamica e da un montaggio incalzante.
Forse un po’ manierato in una messa in scena condizionata dal partito preso dell’assoluto rispetto dei principi di unità di tempo e di luogo. Solo a tratti appesantito da quel intermittente parlare allo specchio del protagonista con il padre assente. Ma, nel complesso, un film comunque ricco di tensione emotiva e capace di dire per trasparenza molte cose sia sul rapporto tra morale e sentimenti, sia su quello tra etica e professionalità, senza però con questo mai calcare la mano su ipotesi d’interpretazione metaforica degli avvenimenti e di quel lungo viaggio verso il nulla.
A differenza di Cosmopolis di Cronenberg (un altro film il cui protagonista era prigioniero della propria automobile), Locke è un’opera che non ha l’ambizione di raccontare tutto il mondo in un interno, ma si rivela un film che si accontenta di parlare solo di ciò che può accadere a un uomo (a quel personaggio specifico, prima ancora che all’umanità tutta) quando diventa prigioniero delle proprie contraddizioni individuali. E, con profonda soddisfazione degli spettatori, Steven Knight e Tom Hardy dimostrano di saper dire tutto questo con chiarezza e profondità.
(aldo viganò)