di R.V.
Il fotografo genovese Alessandro Zunino è diventato da qualche anno filmaker. E ha girato un film nel Laos.
A Genova era noto soprattutto come fotografo, ma da qualche tempo Alessandro Zunino si è dedicato sempre più al cinema. E col suo ultimo film, Lost in Laos, ha fatto il giro dei festival del cinema indie, dal RIFF di Roma al MIFF di Milano, da Montreal e Barcellona a Pune in India.
“Da ragazzo mi sono formato al cinéclub Lumière: un posto così, purtroppo, non esiste più – ricorda – Poi ho fatto il fotografo per vent’anni, specializzandomi in teatro e danza. Ho lavorato con la Scala di Milano, a Roma, negli Stati Uniti, ho fatto svariati video legati alla danza. In seguito ho abbandonato il teatro, e il piacere di raccontare storie si è concretizzato lavorando nel video. Prima videoclip, poi corti di finzione, quindi Greenman, distribuito sul web qualche anno fa”.
Cos’è Greenman, che tra l’altro si può vedere su youtube?
“E’ un lungometraggio concepito per web e dvd. Realizzato nel 2008 per una piccola casa di produzione “animalista”, Medea, è tratto da un romanzo particolare: Il Gesù clonato e l’anticristo vegetariano. Ed è interpretato da molti attori di teatro, tra cui diversi liguri come Lisa Galantini, Fabrizio Lo Presti, Marco Taddei, Oreste Valente, Juri Ferrini, Lazzaro Calcagno”.
Quindi Lost in Laos: com’è nato?
Quattro anni fa, con Laura Malavola, abbiamo fatto un giro nel Laos e ci siamo accorti che umanamente non ha niente a che fare con la Thailandia. E’ un paese isolato, molto povero, ma dove la povertà non viene esibita. Ci siamo innamorati della gente, del loro modo di vivere. Poi siamo capitati a Viang Vieng dove abbiamo incontrato per caso una marea di occidentali giovanissimi, che praticamente avevano colonizzato il paese per uno sballo completo e interminabile. Sembrava una cosa a metà tra Apocalypse Now e Woodstock!
E da lì è nata l’idea del film.
“Sì, abbiamo scoperto che ogni anno muoiono decine di quei ragazzi… E ci siamo chiesti perché vanno proprio lì. Così abbiamo raccontato la storia di due italiani che vanno a sperimentare ogni tipo di sballo e finiscono alla deriva sul fiume. Quando si risvegliano, in mezzo alla foresta, comincia per loro la vera perdita, che diventa poi una ricerca e un ritrovamento di sé”.
Avete girato sul posto, ovviamente.
Abbiamo girato in Laos, ricevendo grande aiuto dalla gente del posto, che ha bisogno di tante cose, soprattutto medicinali. Abbiamo anche girato a Genova in via Balbi e al Museo di Storia Naturale, a Santa Margherita, a Rapallo. I ragazzi sono Daniela Camera, che studia allo Stabile di Genova, e Daniele Pitani, della scuola Paolo Grassi di Milano. E ci sono Carla Signoris e Dario Vergassola come genitori apprensivi: con i loro toni brillanti hanno permesso di alleggerire un po’ il racconto.
Tutto a basso costo.
Lost in Laos è stato prodotto con finanziamenti privati. Senza entrare nel merito di cosa può o meno definirsi “indipendente” e di quanto questo termine sia piuttosto inflazionato, penso che il cinema debba essere soprattutto “alternativo”. Ciò non toglie che un’idea in cui si crede, e per la quale un autore può essere pronto a tutto, spesso obbliga ad adattarsi al punto che i mezzi giustifichino il fine. Un basso budget non è comunque sinonimo di ristrettezza, come un budget alto non significa spreco e ricchezza. Dipende dal progetto.
C’è qualcosa di nuovo in cantiere?
“Sto preparando un nuovo film, che prevedo costerà venti volte più di Lost in Laos, perché da girare in inglese e con attrezzature ‘professionali’, ma questo -se si realizzerà- non ne farà un prodotto “ufficiale”, perché penso che indipendenti siano le idee e non le produzioni”. (r.v.)