Mostra di Venezia 2013: Sacro GRA


Se Sacro GRA di Gianfranco Rosi fosse l’unico resoconto attendibile circa lo stato antropologico dell’Italia, la reazione più dignitosa e sensata alla visione del film dovrebbe probabilmente essere quella di legarsi un masso al collo e gettarsi nel Tevere, o nel corso d’acqua più vicino.
L’umanità varia e avariata al centro della pellicola Leone d’oro – a sorpresa – di Venezia 2013 si presenta infatti come una galleria di volti e corpi che paiono strappati a forza da un sogno grottesco, materializzatisi per scherzo dal buio di qualche casa di cura, dal fondo di qualche cesso di autogrill o retrobottega imprecisato, da un filmaccio senza titolo o direttamente dalla Luna. Il Grande Raccordo Anulare (il GRA del titolo) è uno scrigno, i suoi tesori casi limite inarrivabili. Sceneggiatori rigonfi di talento e umorismo nero difficilmente sarebbero riusciti a inventarli di sana pianta, a immaginarne i tic e gli eloqui, le fisionomie e le esistenze talvolta spensierate, più spesso opache e malinconiche, se non tristi e rassegnate. In ordine sparso, sfilano sullo schermo: il solitario barelliere del 118 che bazzica le video-chat, l’anguillaro logorroico che disquisisce leggendo la Repubblica, il nobile piemontese decaduto che vive con la figlia e affetta melanzane, la famiglia di aristocratici con pacchianissimo residence-mausoleo aperto al pubblico pagante, i transessuali sfatti, la vecchia battona che canta da sola, il vecchio attoruncolo che fa la comparsa nei fotoromanzi, il dj casalingo, le cubiste coatte col perizoma di rigore, le beghine rintronate che vanno in estasi per l’eclisse al Divino Amore, e poi anziani a fine corsa e persino le salme da smaltire nell’ossario, fino al botanico impegnato in una lotta senza quartiere contro i minuscoli parassiti delle palme.
Sono autentici abitanti del GRA, fasulli solo all’apparenza, alienati ma vitali. A scoprirli è stato il paesaggista e urbanista Nicolò Bassetti, il quale li ha poi passati – come si passa una dritta per un’evasione o una rapina  – a Rosi, documentarista nato in Eritrea ma cresciuto a New York, diplomato alla N.Y. University Film School e avventuroso quanto basta per prediligere sopra ogni cosa le ricognizioni ai confini della società del benessere. Come testimoniano titoli quali Boatman (1993) o Below Sea Level (2008), il suo interesse è spesso rivolto a ciò che si trova fuori dal campo visivo dell’osservatore disattento. Oltre i grandi centri, nelle aree di passaggio tra natura e cemento, nei recessi cavernosi di terre sperdute ci sono macchie di umanità sola e abbandonata a sé stessa, rifiutata, invisibile ai più. Dove lo sguardo di ciascuno di noi è solito sorvolare si possono scoprire misteri sfuggenti, mimetizzati nella moltitudine o ben nascosti al di fuori di essa, veri e propri involucri ambulanti di poesia sublime o di bruttezza immensa, assoluta, inconsapevolmente in attesa di  essere rinvenuti e trasfigurati dall’ingegno dell’artista.
Il mistero nascosto, l’insolito che si rivela all’improvviso: molta dell’attività documentaristica verte su questo, sul cogliere il frammento di realtà in grado di farsi cinema, sullo scovare lo straordinario e osservarlo, braccarlo e inseguirlo se necessario, fino allo svelamento completo e alla comprensione profonda. Rosi pare esserne perfettamente conscio, tanto aver compiuto, in questo suo ultimo film, un passo avanti nel rischio, nella zona grigia dei generi fluidi, che non a caso gli ha inimicato i puristi e una parte non minoritaria della critica internazionale. Selezionato il “materiale” umano, studiati i caratteri, vissuto il contesto in prima persona (ben due anni di permanenza sul GRA), anziché limitarsi a seguire i protagonisti prescelti li ha messi in posa, spingendoli evidentemente a “recitarsi”, a diventare personaggi, a ricreare le proprie vite e i propri vezzi a beneficio della videocamera prima (Sacro GRA è stato girato spartanamente in digitale) e dello spettatore in seguito. L’approccio, insomma, pare curiosamente simile a quello dei vecchi fotografi di fine Ottocento e inizio Novecento, quegli artigiani sussiegosi che immortalavano il nobiluomo e il contadino nella  medesima posa rodomontesca, dopo averne accuratamente sistemato la cravatta e riavviato i capelli. Solo che qui, ad essere sottolineati, amplificati e posti in bella evidenza, sono di volta in volta l’elemento estraneo all’interno di un ambiente, il particolare irregolare o ridicolo di una faccia o di un vestito, la forza dissonante di una voce o di una musica inaspettata e la sfumatura drammatica che, dal nulla, può incupire un dialogo o un corpo che si staglia contro il viavai del traffico. Il procedimento di impercettibile ma progressiva trasfigurazione si ripete quadro dopo quadro per l’arco di tutti i novanta minuti, scandendo un racconto dal passo lento, a tratti sonnambolico, come il presente degli antieroi del GRA. E non ci sono pedinamenti, buchi della serratura aperti sul quotidiano, scorciatoie da tv verità: il mondo è sezionato con consapevolezza e le sue parti vengono isolate per rigorosa scelta estetica, mentre il punto di vista corrisponde al punto-macchina, fisso, saldo come la colonna di un tempio antico. La ricerca – del reale, del vero, del mistero di cui sopra – si rispecchia in una messa in scena o messa in posa ragionata, geometrica ed estremamente estetizzante, che abbatte la già sottilissima barriera che separa il documentario e la fiction (qui commedia, farsa, persino dramma da camera) comunemente intesi, con effetti stranianti e in parte anche ambigui, contraddittori e discutibili. Il prodotto finale, la sequenza di dagherrotipi animati e “sacralizzanti” del regista-antropologo Rosi, è così un ibrido che non assomiglia a nient’altro, una mappatura arbitraria, un road movie acefalo, un’indagine parziale su un paesaggio impenetrabile – nonostante gli sforzi – e su individui complici di un gioco di prestigio cinematografico irresistibile. Tutte figure più vere del vero e dunque improbabili, astratte. Fuori sincrono, fase e luogo e dunque a loro agio nel caos armonico che, come un anello di Saturno, circonda Roma.

Massimo Lechi

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