Per anni abbiamo sperato che Michael Cimino ci desse la sua versione del “Grande Gatsby”, dopo averlo tanto citato nelle interviste: ma era destino che il romanzo di Francis Scott Fitzgerald finisse sempre nelle mani di semplici illustratori. Nel 1974 era arrivata la versione piattamente decorativa con Robert Redford firmata Jack Clayton. Ad inaugurare fuori concorso il festival di Cannes 2013 è invece questa volta lo stile debordante ed eccessivo di Baz Luhrmann, che dispiega tutto il suo armamentario ultrakitsch a base di immagini clippettare, mix musicali, scritte sovrimpresse. Addirittura con la trovata del 3D, che da una parte è sintomatica di questa enfatizzazione, ma che applicata al personaggio di Gatsby e al suo mondo può avere in effetti anche qualcosa di geniale.
Il nodo del film sta del resto nell’eccentrica energia visiva che scaturisce sullo schermo dallo shock del pessimo gusto: e mentre Luhrmann allinea freneticamente le sue inquadrature come tante copertine in rilievo da bestseller, a poco a poco emerge in tutta la sua forza divistica il Gatsby infantile e un po’ bamboccesco di Leonardo Di Caprio, ricacciando agli angoli la mediocre puntigliosità di Nick/Tobey Maguire o la piccola leziosità di Daisy/Carey Mulligan. Indignati i fedelissimi di Fitzgerald per l’enfasi della volgarizzazione, qualche entusiasmo da sito cinefilo per la debordante aggressività visiva del regista di “Romeo + Juliet” e “Moulin Rouge”, col suo stucchevole lavoro ad effetto sulle musiche. Ma Luhrmann non fa altro che prendere una mitologia e reinventarla radicalmente in un altro linguaggio, quello che un tempo si chiamava della postmodernità Mtv: a suo modo coerente.
di Renato Venturelli