Formatasi cinematograficamente a Londra negli anni ‘80, una volta rientrata a Milano Alina Marazzi si è segnalata all’attenzione della critica col suo primo documentario (Un’ora sola ti vorrei), sofferto ritratto della madre scomparsa attraverso il montaggio di sequenze filmate dal nonno paterno. In seguito ha alternato la regia di documentari per la televisione, il lavoro di aiuto regista per il cinema, la collaborazione con alcune realtà artistiche (Studio Azzurro, Fabrica), e l’attività di formazione anche in particolari realtà sociali (laboratori video in carcere). Autrice sempre attenta all’universo femminile e alle molte sfaccettature problematiche che ne caratterizzano le complesse dinamiche, dopo l’esordio di Un’ora sola ti vorrei Alina Marazzi nel documentario Per sempre diretto nel 2005 ha raccontato le storie di donne “mancate” finite a fare voto di clausura in due monasteri, mentre in Vogliamo anche le rose – titolo uscito nel 2007 che le ha regalato maggiore visibilità – ha descritto le donne degli anni ’60 e ’70 decise a combattere per affermare la propria condizione di protagoniste attive della società e non più personaggi muti relegati sullo sfondo del palcoscenico della Vita. Suo quarto lungometraggio, Tutto parla di te è un prodotto ibrido nel quale una vicenda di finzione si intreccia con segmenti documentaristici, filmini in Super8, fotografie, mini installazioni e interviste a comporre un insolito mix di generi cinematografici molto diversi tra loro tenuti però insieme dalla volontà di analizzare da più punti di vista lo stesso tema doloroso. Ovvero la depressione che affligge un elevato numero di neo mamme nel periodo successivo al parto. Incontriamo Alina Marazzi a Firenze in occasione della tappa toscana del suo tour di presentazioni del film uscito giovedì nelle sale italiane.
D. Stando a quanto si può leggere nel Suo blog, Lei ha dichiarato che lo spunto per il Suo ultimo film, Tutto parla di te, è stato un episodio del tutto incidentale che ha fatto nascere in Lei l’idea di fare un film su un tema piuttosto inconsueto come la depressione post partum. La genesi di Tutto parla di te è stata proprio questa, oppure ci sono stati altri spunti che l’hanno spinta a occuparsi delle molte problematiche legate alla maternità?
R. Un giorno di inizio primavera ero con mio figlio appena nato sulla spiaggetta di Capolungo a Genova. Lo tenevo tra le braccia godendo con lui di quei primi tiepidi raggi di sole. Ad un certo punto, vedo avvicinarsi un’anziana del luogo. Indossava un grembiule e sembrava voler fare una pausa dal lavoro domestico. Come spesso capita quando si ha un bambino piccolo, le persone incuriosite si avvicinano per fare i complimenti e per rinnovare quel sentimento di solidarietà augurale. Infatti mi sorrise affettuosamente e mi disse: ‘Che belli i bambini, quando sono in braccio agli altri’. Pronunciò queste parole con uno sguardo dolce e allo stesso tempo adombrato che mi fece molto pensare, perché proveniva da una donna di un’altra generazione, sicuramente madre e nonna, che aveva di certo sacrificato la vita per i figli e i nipoti. Chiunque sia stato genitore – madre o padre – può ben comprendere quell’emozione a volte confusa tra amore e rifiuto per i propri figli. Una tensione tanto dolorosa da vivere quanto spesso impossibile da confessare, perché mette in crisi nel profondo non solo la funzione sociale, ma il senso di quel legame primordiale. Lo spunto “esterno” può essere quindi ritenuto a tutti gli effetti quell’incontro, anche se poi altre forze e atri impulsi interiori mi hanno spinto a scrivere e dirigere il film. Ma è innegabile che in Tutto parla di te io avessi l’ambizione raccontare proprio la misura di quella distanza, spesso indicibile, tra la fatica di essere madri e l’impreparazione culturale e sociale per affrontare e ammettere un disagio tanto problematico e arduo da verbalizzare.
D. La commistione di diversi linguaggi espressivi (Super8 amatoriali, interviste autentiche, fotografie, fotomontaggi, momenti di fiction reale) sembra essere una costante del Suo esprimersi per immagini sin dagli esordi di Un’ora sola ti vorrei, una tecnica ampiamente confermata in Tutto parla di te. C’è un qualche particolare ragione che La porta a usare questo tipo di linguaggio ibrido?
R. C’è ovviamente una precisa intenzione in tutto quello. Una sorta di vocazione alla ricerca su materiale pre-esistente relativo a un determinato tema. Il mio scopo precipuo è quello di andare a vedere le immagini che sono già state prodotte su un certo tipo di avvenimento. Per quanto riguarda l’ultimo film ho deciso di usare linguaggi diversi per raccontare in modo anche simbolico ed evocativo quelle che sono emozioni non direttamente e facilmente definibili. Siccome mi interessava raccontare quella zona non facilmente definibile che si trova nella terra di nessuno tra amore e rifiuto e che era ardua da articolare in maniera univocamente verbale, avevo come l’impressione che il linguaggio del documentario puro potesse essere un limite per mostrare con dei silenzi e con lo sguardo dei sentimenti che sono profondissimi. Per questo ho fatto ricorso a più forme espressive per dare voce visuale a quegli stati d’animo tanto difficili da rappresentare in maniera comprensibile a chi non li ha mai provati.
D. In Tutto parla di te gli uomini (nella loro versione di padri, mariti, compagni, fidanzati) sono del tutto assenti. Il compagno di Emma lo si vede di sfuggita solo due volte, mentre l’unica presenza maschile che abbia qualche minuto a disposizione è quella del coreografo-regista della compagnia di ballo in cui Emma lavora: il quale, guarda caso, non è coinvolto direttamente nella vicenda ma la commenta parlando con Pauline. Vista così, sembra che la figura dell’uomo sia intenzionalmente messa in margine, come se si volesse affermare che le donne non possono assolutamente contare sul supporto dei propri partner e, anche per questo, precipitano nel tunnel depressivo dopo il parto.
R. Nel film ho fatto una scelta di raccontare le relazioni tra donne e quelle di natura extrafamiliare, evitando in maniera deliberata di non approfondire il discorso sulla coppia o del contesto familiare, àmbiti fin troppo complessi per essere presi in esame in un film come il mio. Soprattutto oggi che da un lato siamo di fronte a una trasformazione della figura paterna in qualcosa di nuovo per coloro che hanno intenzione di stare al fianco alle loro compagne, mentre dall’altro c’è una crisi generale della famiglia. Per questo a volte, nei momenti di difficoltà, è più facile riferirsi a persone alle quali non si sia legati da vincoli familiari, ovvero quei membri del proprio entourage cui una donna può avere vergogna di confessare sentimenti inconfessabili perché si sente in colpa di averli provati. Non è un caso che il film guardi soprattutto a rapporti tra donne che condividono la stessa esperienza e si rispecchiano l’una nell’altra. Il compagno di Emma viene presentato di sfuggita e se ne accentua l’atteggiamento distratto e impreparato all’avvenimento che è avvenuto da poco, senza per altro sbilanciarsi in alcun tipo di giudizio .- negativo o positivo – in relazione al suo comportamento. Quanto al personaggio interpretato da Valerio Binasco – regista teatrale genovese che ha accettato di interpretare la parte del coreografo della compagnia di ballo nella quale Emma lavora – è un amico della giovane donna, una figura vicina a quella del maestro, e anche lui ha una forma di funzione maieutica, ovvero di spingerla a portare anche nel suo lavoro lo spirito e l’istinto della maternità. Volevo non descrivere la parte maschile come padre o marito. E quindi il fatto che le poche figure maschili siano defilate o non appaiano nelle loro vesti di compagni è del tutto intenzionale.
D. La scelta di un’attrice come Charlotte Rampling per interpretare il ruolo della protagonista è stata la Sua prima opzione oppure aveva in mente qualche altra attrice? Glielo domando perché il fatto che Pauline venga presentata come un’etologa francese nata a cresciuta a Torino sembra un po’ strano e in parte forzato. Mi domando cioè se questo particolare in sede di sceneggiatura non sia dovuto a un cambio di attrice in corso d’opera.
R. La sceneggiatura è stata scritta con al centro il personaggio di questa donna che compie una ricerca sui materiali della maternità. Quando cercavo di immaginare chi potesse essere questa donna, sono inizialmente partita dalle attrici italiane di una certa generazione, senza però riuscire a trovare il volto giusto. Ed è così che abbastanza rapidamente abbiamo iniziato a pensare di coinvolgere un’attrice straniera ed è stato lì che la scelta è caduta sulla Rampling. Dopo averla contattata e averle proposto il film nonché aver preso nota di un suo primo interesse per l’iniziativa, l’ho prima incontrata e quindi discusso con lei la sceneggiatura. In seguito, quando mi ha fatto sapere di accettare la parte, ho riscritto il tutto ripensando alla sua presenza e modificando il suo personaggio sulla scorta di una donna di una certa età ma non italiana.
D. Nel corso dell’ultimo fine settimana sono usciti ben sette film italiani e il prossimo ne usciranno probabilmente altri cinque. Pare che l’ingorgo sia dovuto alla fretta che la distribuzione ha di far uscire i titoli in sala per rientrare nel fatidico 26 aprile che sarebbe poi la data entro la quale un prodotto italiano dev’essere distribuito per poter essere valutato per i David di Donatello. Non Le pare che si tratti di un’autentica follia?
R. Sono perfettamente d’accordo. Il regista purtroppo è l’ultima persona che possa intervenire in questa fase della vita del film. Il caso di Tutto parla di te è particolarmente deprimente: è pronto da ottobre ed è stato tenuto fermo fino ad adesso. Tra l’altro si tratta di un film autunnale per atmosfere ed è uscito nella prima settimana di caldo nella quale la gente era più portata ad andare a spasso piuttosto che al cinema. E vorrei anche aggiungere che è stato fatto uscire in concomitanza ad altri titoli che, pur trattando argomenti diversi, potrebbero attirare in sostanza lo stesso tipo di pubblico. Certamente è una prova durissima per il mio film. Bisognerebbe parlare in maniera concreta e fattiva con la distribuzione e capire quale sia la logica sottesa a questo tipo di scelte aberranti.
Guido Reverdito