“E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì


E' stato il figlioNicola Ciraulo (Toni Servillo, grandioso) è un uomo ributtante. Vive in un desolato rione palermitano, con gli anziani genitori, la moglie e i due figli – un primogenito che disprezza e l’amata Serenella. Tutto nella sua vita è spazzatura (munnizza), povertà e ignoranza. In canotta, affronta il mondo con l’inconsapevolezza ottusa di chi è cresciuto incastrato nei meccanismi aberranti di una società ancora inguaribilmente tribale, tra fatalistico abbandono alla crudeltà del caso, un cristianesimo ridotto a imprecazioni sibilanti, pose posticce da patriarca e musica neomelodica: una vignetta allucinata, insomma, impegnata a mantenere il proprio clan raccogliendo rottami dai relitti del porto.

E proprio verso una carcassa arrugginita, arenata tra gli scogli, lo vediamo navigare all’inizio di questa storia di morte e squallore, raccontata anni dopo dall’attonito Busu (l’Alfredo Castro di Post mortem e Tony Manero) ai clienti in attesa in un ufficio postale di periferia.

Ma chi è Ciraulo? E perché il figlio lo ha ucciso in un raptus? La risposta – apprendiamo mentre scorrono i numeri sul tabellone – è nel denaro. Un giorno, sulle note indiavolate di Nino D’Angelo, Serenella viene colpita in uno scontro a fuoco davanti casa. Al dolore subentra però presto la brama del maxi-risarcimento statale per le vittime di mafia (220 milioni di lire), sogno di agiatezza, miraggio di felicità consumistica. La ricchezza, tanto improvvisa quanto ingestibile, altera per sempre l’equilibrio della famiglia, innescando una spirale devastante che culminerà nell’acquisto del tutto irrazionale di un’automobile di lusso (una Mercedes “presidenziale” da esibire nel vicinato) e nell’epilogo tragico paventato sin dal titolo.

E’ stato il figlio, esordio in solitaria di Daniele Ciprì tratto dal romanzo omonimo di Roberto Alajmo, era uno dei film più attesi alla Mostra di Venezia, e non ha deluso le legittime aspettative della stampa italiana. Ci voleva l’inventore – insieme al latitante Franco Maresco – del “cinismo” cine-televisivo per dare una prima scossa alla competizione, trascinando pubblico e critica nell’abisso di quella terra di nessuno ben nota a chi, dai tempi de Lo Zio di Brooklyn, ha saputo amare le provocazioni della coppia di registi siciliani. Molto sembra tuttavia allontanare questa sulfurea opera prima dalle brutture in bianco e nero dei Paviglianiti o dei mitici fratelli Abbate: l’indipendenza registica appena acquisita ha comportato un netto cambio di passo, a cominciare dal colore e dal ricorso a certi toni sguaiati da sceneggiata, alternati a squarci di umorismo stralunato, quasi candido nella sua insistita assurdità. Il sadismo crudele del passato (marchio di fabbrica di Cinico TV) ha lasciato il posto ad una deformazione grottesca che coinvolge sia l’anima dei personaggi sia l’esteriorità degli attori, ridotti a maschere unte, mostri privi persino della cattiveria necessaria per sopraffarsi a vicenda, sagome illuminate dai riflessi di un folklore radicatosi subdolamente nell’immutabilità del tempo.

Cancellata ogni possibilità di empatia, abolito lo scavo psicologico, tutto si riduce ad un groviglio di istinti fuori controllo, ad una stupidità annichilente che tinge di nonsense ogni comportamento, ogni gesto, limitando l’esistenza dei protagonisti a pura e semplice sopravvivenza. Manutentori di una vita in concessione temporanea, i Ciraulo si trovano rincretiniti a guardare televisori senza segnale, all’interno di un orizzonte desertificato in cui la rivendicazione è sempre e solo materiale, il benessere un concetto indefinito e il mondo esterno al microcosmo familiare una galleria di laide figure di contorno (dall’avvocato forforoso ai corpi sfatti dei bagnanti in riva al mare, dal parroco corrotto fino all’indimenticabile Signor Pino, usuraio melomane) con le quali avere solo fugaci contatti al di fuori dalla miseria del quartiere.
Ciprì cerca dunque il tragico nascosto tra le macerie di un’Italia devastata (pre e post-tutto), e trova un concentrato di umori neri e orrore sottoproletario che sembra sgorgare dalla terra stessa, quasi ad alimentare spontaneamente il dramma “ridicolo” di chi vive in perenne oscillazione tra farsa e sofferenza, tra sghignazzo e fatti di sangue.
Cinema al contempo morale e antropologico (in conferenza stampa il regista ha parlato di una funzione “civile” del grottesco), E’ stato il figlio è un esordio intenso, spiazzante, ennesima conferma di un talento iconoclasta da sostenere senza riserve.

(di Massimo Lechi)

Postato in Festival, Festival di Venezia.

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