Sei anni dopo lo splendido Bug, che aveva finalmente riacceso l’interesse dei cinefili nei suoi confronti, William Friedkin ritrova in Killer Joe il drammaturgo Tracy Letts e licenzia un formidabile “white trash noir” ispirato a Jim Thompson, un apologo violento e grottesco sulla stupidità del male o, prima ancora, sull’irredimibile idiozia della natura umana.
Se Bug esperiva la follia paranoica confinandola nello spazio ridotto di una stanza d’hotel, Killer Joe è un balordo dramma familiare che esplode nel perimetro di una roulotte dispersa in un trailer park texano, un pièce quasi elementare nella struttura, nutrita però di humor nerissimo e toni iperrealistici e allucinati. Non sono le scene di brutalità iperbolica – una già diventata di culto – o quelle d’azione a dare al film la sua intensità emotiva, quanto l’energia disturbante degli scontri verbali tra i cinque personaggi protagonisti, uno più sporco, ottuso e cattivo dell’altro, in uno spazio chiuso, dove la storia di cospirazione familiare cresce gradualmente fino a trasformarsi in una farsa oscena e apocalittica.
Libero dalle costrizioni degli studios e dagli obblighi d’incasso, Friedkin ha ritrovato nelle storie di Letts la voglia e l’opportunità di fare dei film liberi e personali, film che denunciano un inasprimento della sua misantropia e una visione del mondo più paranoica e claustrofobica, ma che ci riconsegnano un regista in gran forma. Un vecchio maestro incarognito e mordace, che si diverte a dirigere delle piccole storie da camera come fossero beffarde lezioni, di regia e di morale, da consegnare a quell’America puritana che l’ha sempre mal digerito.
In Killer Joe non ci sono buoni. A parte Dottie, che è una ragazzina incosciente più che innocente, il mondo pare in preda alla stupidità e alla violenza. È un’impressione o la sua visione del mondo si è incupita?
Non credo che sia una caratteristica di Killer Joe e di questi ultimi anni ma di un tratto peculiare, piuttosto inconscio, molto presente nella mia carriera e che ho scoperto consapevolmente soltanto in questi mesi. Sto scrivendo un’autobiografia e per farlo mi sono messo a ripensare a tutti i miei film, alle storie che ho scelto di girare ed è innegabile che il male sia sempre lì. Sono attirato dalle storie in cui i personaggi lottano per dominare le forze oscure che li tormentano: ci sono il bene e il male in lotta costante ed è un fatto che non sempre gli angeli migliori prevalgano. Non lo chiamerei pessimismo, lo chiamerei piuttosto realismo.
Nessuno dei personaggi del film pare preoccuparsi troppo della gravità morale dei suoi gesti e delle sue decisioni, sono soltanto accecati dal proprio tornaconto.
Le intenzioni morali del film sono tutte da attribuire a Tracy, è lui l’autore del testo da cui è tratta la storia e quindi anche del mondo etico che la caratterizza. Ma mi sento molto vicino alla sua lettura delle cose. Una questione di cui abbiamo a lungo discusso è la scomparsa, nelle persone comuni, della percezione dei legami di causa/effetto quando commettono azioni particolarmente feroci. Alcuni casi di cronaca americana, come quello della madre che ha ucciso la sua bambina in Florida perché non le consentiva di uscire la sera, hanno testimoniato che non c’è più la preoccupazione di nascondere prove o depistare le indagini da parte di chi commette crimini. Come se non avvertissero la gravità dei propri atti, ma ci fosse uno scollamento totale tra l’azione criminale e le sue tremende conseguenze. Non so se questa incoscienza sia stata alimentata anche dalla crisi economica, ma vale la pena pensarci. Se la povertà è più vergognosa di un omicidio c’è qualcosa di molto importante nella scala dei valori umani che è già saltato via. In Killer Joe chi mette in moto il meccanismo per recuperare i soldi dell’assicurazione non ha assolutamente idea di quale inferno stia per scatenare.
Le atmosfere del film richiamano molto da vicino i noir di Jim Thompson: cupi, disperati e con dei personaggi dalla forte ambiguità morale.
Tracy ama molto Thompson ma i miei riferimenti non sono così letterari. Mi piaceva la claustrofobia dell’ambientazione del testo, il fatto che i personaggi non potessero sfuggire da loro stessi. Molti miei film hanno questa caratteristica: costringere i protagonisti a confrontarsi in spazi claustrofobici con le loro ossessioni o le loro paranoie. Perfino Vivere o morire a Los Angeles era così. Per raccontare l’ambiguità del protagonista invece mi sono ispirato a La notte corre sul fiume, l’unico film da regista di Charles Laughton, una storia bellissima in cui Robert Mitchum interpreta un predicatore malvagio. Il personaggio di Joe Cooper, il detective che in realtà è un killer spietato, deve molto a quella figura apparentemente docile e per questo ancor più pericolosa e terrorizzante. L’altra qualità molto originale dello script è la massiccia dose di humor, una dote rara di cui Letts è naturalmente dotato. Non sto parlando di comicità alla Tati ma di commedia umana, quello humor non intenzionale che scaturisce dalle azioni più inaspettate e inspiegabili degli uomini.
Bug e Killer Joe sono film indipendenti, molto personali e off Hollywood. Che impressione le fa oggi il cinema mainstream visto da lontano?
I film che vanno per la maggiore, tratti da fumetti, videogiochi o giochi per bambini, non mi interessano per nulla. Non ho niente contro di loro, alcuni sono anche ben realizzati, ma non fanno per me. Per tutto il tempo che ho lavorato nel sistema hollywoodiano, dagli anni sessanta ai primi anni novanta, mi sentivo in sintonia con quello che l’industria produceva, ora no. Non mi piacciono i blockbuster, né le stupide commedie che dovrebbero farti sentire bene, cose tremende tipo Bridesmaids. Non mi piace nemmeno il ritmo visivo che i film d’azione impongono allo spettatore, non ha senso sparare 10 inquadrature al minuto, non c’è rispetto per chi guarda. Killer Joe è film vecchio stile: uno script forte, degli attori in gamba, la macchina da presa al servizio della storia e dell’atmosfera. Ed è una sfida per il pubblico, non è una storia immediatamente digeribile e non mi aspetto che venga vista da chissà quante persone. Ma non me ne importa nulla, sono soddisfatto del risultato e non ho intenzione di cambiarne una virgola.
(di Roberto Pisoni)