Non è uno che fa certo molti sforzi per farsi amare, Sacha Baron Cohen. Autentico terrorista dei media, è riuscito a creare, attraverso gli alter ego Ali G, Borat e Bruno, un mostruoso falò delle vanità che ha fatto piazza pulita della nostra stupidità televisiva (e politica, umana, culturale…) rivendendocela come il migliore dei mondi possibili. Cosa notevole, da un punto di vista strettamente imprenditoriale: farci comprare una cosa che abbiamo già… ma andiamo per ordine.
Attore di origini ebraiche, nipote di un sopravvissuto allo sterminio nazista, cugino dello scienziato Simon Baron-Cohen, specializzato nelle ricerche sull’autismo, si è fatto notare attraverso la creazione di un personaggio, Ali G, che azzerava la distanza fra personaggio e attore. Un vero e proprio alter-ego in grado di fungere da catalizzatore del rimosso dell’intervistato o, se si preferisce, in grado di spingerlo a rivelarsi al di fuori del galateo televisivo. Il senso dell’assurdo di Baron Cohen nasce da un folle desiderio di conformismo elevato all’ennesima potenza. Come se il clown Augusto della tradizionale cultura circense tentasse in tutti i modi di attingere alla rispettabilità sociale del clown Bianco, sua perenne nemesi e modello irraggiungibile.
Le creazioni comiche di Baron Cohen non sono degli outsider, tutt’altro. Sono semmai il minimo comun denominatore di un mondo azzerato su un modello linguistico e di comunicazione che non ha più altro orizzonte se non quello della propria autoreferenzialità mediatica. Ciò che dunque mette in scena Baron Cohen è sostanzialmente un mondo cieco incapace di vedere l’altro che, nonostante tutto, si ritiene legittimato a scandalizzarsi o a stigmatizzare le oltraggiose creazioni dell’attore che, come il più rigoroso degli scienziati sociali, si limita a tenere ben saldo lo specchio (e, lo sappiamo grazie a Carmelo Bene, che gli specchi sono osceni perché moltiplicano l’essere umano…).
Se dunque la prima sortita cinematografica del nostro con il film dedicato alle imprese del rapper bianco Ali G non si distaccava molto, qualitativamente, dalle pellicole che faticano a tenere al cinema il passo della televisione, con il successivo Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan, Baron Cohen spinge la sua scommessa formale in territori non esplorati dal cinema commerciale statunitense e non solo. Borat, infatti, non si vergogna di essere antisemita, sessista, fascista e quant’altro. È semplicemente convinto che tutto il mondo sia fatto a sua immagine e somiglianza e si comporta di conseguenza. Lui, Borat, è più normale dei normali. E se pensate che la corsa antisemita stile palio di Siena con i fantocci dai nasi adunchi sia un’invenzione gratuita, beh, date uno sguardo all’agghiacciante documentario The Passion according to the polish comunity of Pruchnik di Andreas Horwath e Monika Muskala e se ne riparla. Lo sforzo compiuto da Borat è di essere ammesso in un mondo al quale lui sente di appartenere per diritto.
Chiede di essere ammesso in un mondo di simili. In questo senso il processo è inverso a quello della comicità tradizionale nel quale l’elemento scatenante del caos è introdotto da un corpo, un personaggio essenzialmente incapace di adattarsi al mondo degli altri. Un mondo che non comprende e che rifiuta in ultima analisi. Se dunque c’è una comicità sovversiva, dichiaratamente tale, da Buster Keaton passando per Stan Laurel per giungere sino a John Belushi, Baron Cohen inverte il processo: il suo Borat non è la parodia della cattiva coscienza degli altri, è semplicemente la loro normalità. Ed è dunque su questo crinale che l’attore dimostra tutto il suo potenziale politico. La caratterizzazione mostruosa non crea distanza: è l’immagine riflessa di una deformità antropologica che si pensa “normale”.
In questo senso il discorso di Baron Cohen si radicalizza con il successivo Bruno che permette all’attore una serie di oltraggiose caratterizzazioni che non fanno prigionieri distruggendo ogni brandello di politicamente corretto.
Bruno estremizza Borat in una sorta di auto da fé che assume i contorni sinistri di una condanna senza appello. Mentre soffochiamo dalle risate, strozzandoci per i sensi di colpa…Chi l’ha detto che ridere è liberatorio?
Che l’attore abbia in realtà anche altre numerose frecce al suo arco espressivo è dimostrato ovviamente anche dalle sue caratterizzazioni in film come il recenteHugo Cabret di Martin Scorsese o lo Sweeney Todd di Tim Burton (anche se la nostra preferenza va inevitabilmente al pilota di nascar gay interpretato nella commedia Talladega Nights). Senza contare che è stato arruolato da Quentin Tarantino per il suo annunciatissimo Django Unchained e che è procinto di interpretare Mercury, il biopic dedicato al cantante dei Queen.
Certo, nel paese del doppiaggio a oltranza, la forza della comicità di Baron Cohen si arena sempre sulle secche dei tentativi vani di rendere il florilegio d’invenzioni dell’originale in un improbabile italiano che non esiste se non nella testa di chi è ancora convinto che il pubblico della penisola sia rigorosamente monolingua. Eppure ciò non dovrebbe affatto sminuire la curiosità per l’attesa di The Dictator, film che sarebbe tratto addirittura da un romanzo scritto da Saddam Hussein in persona (ovvio che in questo caso il dubbio è più che lecito, ma non si può fare a meno, perversamente, di sperare che invece sia “tutto vero”…). Dalle immagini che ci è dato vedere al momento, sembra che Baron Cohen abbia delle idee molto precise in merito alla faccenda della democrazia nel mondo. Se mai ci fosse stato bisogno di avere conferma della sua vocazione politica. E come non rabbrividere alla battuta: “Oh l’America! Il paese che ha inventato l’Aids!”.
(di Giona A. Nazzaro)