Chi volesse stilare un elenco con tutti i film incentrati sulla “malattia” e il suo potere inarrestabile di devastare la vita e le relazioni di quanti ne sono vittima si impegnerebbe in un’impresa titanica: il cinema ha da sempre sfruttato in modo quasi morboso questa relazione pericolosa, sfornando tonnellate di titoli fotocopia nei quali lo spettatore viene costretto a partecipare ai casi dei personaggi affetti da morbi più o meno incurabili senza avere la possibilità di ribellarsi all’implicito ricatto estetico e psicologico sempre contenuto in questo tipo di pellicole (“non vorrai mica esprimere un giudizio negativo su un film che ti chiede di condividere la sofferenza di un malato?”).
Ma non tutti i titoli dedicati a questa tematica fin troppo abusata giocano sporco allo stesso modo, ricorrendo alla lacrima facile per nascondere sceneggiature che ripetono all’infinito dinamiche drammatiche scorrette proprio per il tipo di rapporto ricattatorio che instaurano con lo spettatore . A dimostrarlo sono il recente successo francese di “Quasi amici” e l’americano “50/50” in arrivo prossimamente nelle nostre sale, entrambi incentrati sì sul tema della malattia ma diversi da molti soggetti analoghi per il fatto non solo di saper trattare con garbo, ironia e rispetto un tema tanto scivoloso, ma soprattutto per proporlo al pubblico offrendo prospettive e punti di vista diversi dal solito.
Il film è tratto da una storia realmente accaduta allo scrittore e sceneggiatore Will Reiser (che si intravede per un attimo nei panni di uno zio del personaggio del protagonista durante un party organizzato in suo onore), il quale l’ha raccontata nell’omonimo romanzo autobiografico da cui il film è tratto. Una vicenda che forse non sarebbe mai diventata cinema se a spingere Will Reiser stesso a tradurla in uno script non ci avesse pensato Seth Rogen, attore comico e a sua volta soggettista e sceneggiatore (“Io, te e Dupree”, “Molto incinta”, “Strafumati” per citare solo qualche suo successo), il quale era amico di Reiser sin dai tempi dell’università e lo aiutò in maniera decisiva a superare lo shock susseguente alla diagnosi di tumore che gli sconvolse la vita a venticinque anni.
“50/50” ruota intorno alla figura di un ventisettenne (interpretato da un eccezionale Joseph Gordon-Levitt, esploso in “Inception”) la cui vita tranquilla e promettente di speaker radiofonico con bellissima fidanzata di contorno viene sconvolta all’improvviso da una diagnosi terrificante: il mal di schiena che lo affligge da mesi non è un semplice reumatismo, ma la manifestazione sintomatica di un tumore rarissimo che gli sta devastando la spina dorsale e il midollo. Da quel momento in poi tutto precipita in maniera rapidissima e la normalità standard si converte in un attimo in un rosario di sofferenza e angoscia che il protagonista deve sgranare in solitudine mentre la comunità degli “altri” non sembra in grado di sintonizzarsi sui canali del suo dolore. Già solo dal modo rapido e secco con cui il film mostra questo passaggio si intuisce come la sceneggiatura e il giovane regista Jonathan Levine (“Fa la cosa sbagliata” del 2008) aborrano certi dilatati patetismi da fazzoletto tipici di troppi altri titoli del genere, scegliendo invece di raccontare il precipitare degli eventi con poche scene secche e dolenti in cui la riduzione all’osso del dialogo lascia che a parlare siano soltanto il viso contratto del protagonista e la musica discreta ma ansiogena di Michael Giacchino (Oscar per la colonna sonora di “Up”) che gli fa da commento grave.
Uno dei punti di forza dell’intero film è proprio questa svolta narrativa nella sua prima parte e la modalità espositiva con cui viene affrontata. Di lì in poi la malattia – assodata nella sua assoluta gravità e data quindi come per certa in qualità di motore dell’azione – può paradossalmente essere messa in secondo piano, lasciando che a fare la parte del leone siano non solo le reazioni del giovane malato ma soprattutto quelle di chi gli sta intorno e cerca di fare tutto il possibile perché il suo viaggio nella sofferenza e nella tenebra dell’assenza di futuro non sia una via crucis ma un percorso catartico verso la speranza. E in questo giganteggia la figura di Kyle, l’amico del cuore del protagonista Adam, il quale – noncurante di quello che la gente può pensare del proprio approccio –, pur di evitare che il sodale precipiti nello sconforto, lo costringe letteralmente a vedere tutto il buono che c’è nella sua condizione di malato grave. Al punto da spingerlo a sfruttare la malattia per far colpo sul buon cuore delle ragazze e portarsele così a letto o a non vergognarsi di fare grossolane gaffe sul cancro pur di esorcizzarne la presenza opprimente e scatenare un attimo di imbarazzato buon umore.
Ma un grosso peso ce l’hanno anche le presenze femminili, determinanti per Adam in questa fase di angosciosa attesa che lo separa dalla temuta operazione alla spina dorsale. Da una parte la bella fidanzata si fa odiare e cacciare di casa perché non ci mette un attimo a tradirlo sollevandosi il morale a terra per la convivenza con un malato (forse) terminale in depressione acuta. Mentre dall’altra c’è la madre di Adam (una fantastica Anjelica Houston che è come un Barolo riserva capace di dare il meglio di sé più passano gli anni), la quale mostra di avere dentro di sé una forza tanto grande da tollerare sia il peso di un marito perso nei meandri cerebrali di un Alzheimer gravissimo e senza ritorno, sia l’energia necessaria per dare al figlio tutto quell’affetto che solo una mamma può avere in serbo nel proprio cuore. Ma, come in ogni unità triadica religiosa che si rispetti, a completare il triangolo femminile di presenze di supporto ci pensa la terapista assegnata ad Adam. Si tratta di una dottoressa così giovane da non aver ancora finito il tirocinio ma capace di compensarne i vuoti depressivi e la giustificata disperazione che lo affliggono con un approccio terapeutico molto “diretto” che farebbe impallidire stuoli di colleghi, ma che con un paziente difficile come Adam paga al meglio. Al punto che alla fine tra i due scoppia anche la scintilla dell’amore vero.
Quando si arriva alla dirittura finale dei dolori del giovane Adam, il film non tradisce quanto ha seminato fino a quel momento: se l’operazione riesce al meglio non ostante sia stata presentata con pochissime probabilità di riuscita e se il malato ne esce potendo guardare con qualche speranza all’inizio di una nuova vita, nessuno grida al miracolo facile. Lo spettatore è infatti ormai intimamente entrato nell’anima del protagonista e si è lasciato coinvolgere in modo totale dall’idea che l’affetto di chi ci sta veramente a cuore possa essere la marcia in più per uscire dal tunnel anche della peggiore delle malattie. Al punto che il vedere Adam coi capelli ricresciuti e risarcito dalla vita con un ritorno alla piena normalità (ma anche con l’aggiunta non da poco di una compagna vera, la terapista, capace di interpretare al meglio il ruolo in cui la fidanzata ufficiale aveva fallito tanto miseramente) non dà alcun fastidio e non fa gridare allo scandalo, ma viene percepito come il solo esito possibile a una storia di successo. E, una volta tanto, una storia di successo sulla malattia, non sfruttata come sempre accade al cinema per far scorrere fiumi di lacrime facili, ma presa per quello che è. Ovvero come uno dei tanti incidenti di percorso destinati a sconvolgere le fragili esistenze di noi esseri umani, tirando fuori non il peggio ma il meglio di noi stessi.
(di Guido Reverdito)