Salvate il cavallo Joey! – “War Horse”, di Steven Spielberg

war horse locandinaCome già successo in passato per alcuni titoli comprensibilmente bersagliati dalla critica (si pensi, a puro titolo di esempio, a “Il colore viola“, “Always – Per sempre“ o “Amistad“), non è improbabile che anche questo “War Horse” sia destinato a dividere professionisti del cinema e non in opposte schiere di detrattori delusi e di ammiratori entusiasti. Le ragioni di tali probabili reazioni sono facili da intuire. Spielberg è fedele a una certa sua idea di cinema, che permea però solo parte di una produzione comunque costellata di pietre miliari della recente storia del cinema: in molti suoi film sembra chiara la convinzione che il cineasta debba essere visto come un demiurgo capace di trascinare lo spettatore all’interno del film con storie capaci di toccare le corde più intime dell’animo umano chiamando in causa i sentimenti primari e insopprimibili che chiunque prima o poi prova nel corso di una vita. E non è quindi una sorpresa troppo grossa se in questo melodramma a metà tra il film adolescenziale e lo sfruttamento spettacolare di un evento altamente tragico quale la Grande Guerra, Spielberg s’ingolfa in un’operazione nostalgica che richiama in vita un certo modo antico e antiquato di fare cinema tanto caro alla Hollywood di cinquant’anni or sono, ma difficile da dare in pasto alle platee dei giorni nostri, abituate come ormai sono agli specchietti per le allodole in versione 3D o a vicende che parlino dell’hic et nunc senza peli sulla lingua.

Il film potrebbe infatti esser stato diretto a fine anni ’50 come prodotto per famiglie sfornato da una grossa major in cerca di guadagni facili in prossimità delle feste natalizie. Gli ingredienti ci sono tutti. La miseria di una famiglia di contadini del Devon costantemente minacciata dai creditori e dalle carestie e sull’orlo di un collasso annunciato anche dall’incupirsi degli scenari della grande Storia che ne circonda il miserrimo microcosmo antropologico. L’amicizia tra un giovane determinato e cocciuto (è il figlio dei due contadini) e uno splendido puledro comprato dal padre nel disperato tentativo di arare la terra arida e dura che circonda la sua fattoria e destinato a diventare il protagonista assoluto della vicenda. Un vero personaggio a tutto tondo (ci manca solo che parli…) intorno al quale ruotano i destini non solo del suo giovane padroncino ma di una lunga lista di proprietari che si palleggiano l’animale facendo lo slalom tra le baionette e i colpi di shrapnel in trincea fino al fausto e annunciatissimo happy end con ricongiungimento trionfale dopo infinite peripezie. Il dramma collettivo della I guerra mondiale con le sue masse omeriche di innocenti avviati al massacro visto però attraverso la lente deformante del cavallo e del suo sopravvivere a tutto e tutti mentre l’Europa brucia in un bagno di sangue senza fine. Le molte (troppe) figurine da libro “Cuore” dei numerosi comprimari che la sceneggiatura rende necessari per descrivere i molti passaggi di mano del cavallo. Scenari di cartapesta in cui una fotografia un po’ da cartolina e una musica sempre fin troppo invadente e pomposa accompagnano gli accoppiamenti narrativi più o meno giudiziosi di questa folla eterogenea di personaggi trascinandoli in ghirigori che dilatano la durata del film senza però dargli lo spessore adeguato per diventare epico come una cavalcata di John Ford. Per non tacere della generosa spruzzata di buoni sentimenti a tutto campo che sparge dovunque energia positiva convertendo in accettabile anche uno dei più grandi orrori della Storia del secolo scorso (emblematica, a questo proposito, la scena in cui un soldato inglese e un nemico tedesco si ritrovano nella terra di nessuno tra le opposte trincee e celebrano un improbabile “volemosebene” al capezzale del cavallo ferito dal filo spinato).

Il tutto diretto con enfasi insolita in un regista asciutto e rigoroso quale Spielberg, il quale sembra invece aver voluto davvero confezionare un prodotto che faccia rimpiangere i kolossal di un tempo e si candidi (com’è puntualmente avvenuto viste le sei nomination) a incantare i giurati dell’Academy Awards offrendo loro una specie di salvagente superficiale ma rincuorante contro le amarezze sciorinate da avversari temibili ma sconfortanti quali “The Descendants”,” The Artist”, “The Tree of Life”, “Moneyball” per citarne solo alcuni.

Può darsi che una responsabilità ce l’abbia anche il libro cui Spielberg si è ispirato per realizzare questo suo secondo film confezionato in un intensissimo 2011: si tratta infatti di un romanzo per ragazzi pubblicato nel 1982 da Michael Morpurgo (britannicissimo non ostante il cognome), che nel 2007 era già stato portato con relativo successo sulle scene in versione teatrale per poi diventare un radiodramma l’anno successivo (a produrlo fu la BBC e tra gli attori impegnati a dar voce ai personaggi vi erano anche grossi calibri quali Bob Hoskins e Brenda Blethyn). Il libro è un romanzo per adolescenti e quindi, per costruzione, risulta incentrato su un mix abusato di grandi sentimenti quali la perseveranza, la lealtà, l’amicizia e il rispetto per gli altri e intenti palesemente educativi. Inevitabile quindi che un romanzo di questo tipo si prestasse in maniera quasi automatica a un’operazione da kolossal che non stupisce visto che Hollywood non si lascia mai scappare buone occasioni per fare cassetta sfruttando storie strappalacrime (che qui non mancheranno di scorrere, specie tra i molti appassionati del mondo equestre e dei cavalli in generale).

Peccato che a firmare questo tipo di operazione sia però Steven Spielberg il quale ha in passato dimostrato di saper far vibrare in ben altro modo tanto le corde dei rapporti stonati tra esseri umani e animali (basti rammentare “Lo squalo” o i dinosauri di “Jurassic Park”, animali recuperati in laboratorio ma pur sempre bestie feroci), quanto gli orrori dei conflitti visti come palcoscenico di vera macelleria umana e devastazione interiore (impossibile non citare i casi di “Schindler’s List” e “Salvate il soldato Ryan” ma anche le due fortunate serie TV di “Band of Brothers” e “The Pacific”). Mentre in questo deludente “War Horse” le stesse componenti altamente drammatiche vengono sfruttate come quasi sempre scenari passivi di cartapesta su cui proiettare l’epica campestre di un eroe a quattro zampe troppo infantile e riduttivo per poter occupare tanta pellicola da solo.

(di Guido Reverdito)

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