Giuliano Montaldo compie mezzo secolo da regista (Tiro al piccione, 1961), oltre che sessant’anni di cinema (Achtung! Banditi!, 1951), e lo festeggia nel migliore dei modi. Con un nuovo film: L’industriale, ideato insieme alla moglie Vera, sorella del grande produttore Leo Pescarolo, scritto poi insieme ad Andrea Purgatori. E battezzato da un aneddoto che ha subito fatto il giro d’Italia: il presidente Napolitano che ha voluto assistere all’anteprima durante il festival di Roma, pagando regolarmente il biglietto e sedendo in un posto qualsiasi, in mezzo agli altri spettatori.
A cosa si deve l’idea del film?
Volevo raccontare un momento così difficile come quello che stiamo attraversando, attraverso gli occhi, la vita, la testardaggine, la forte personalità di un uomo che ha ereditato dal padre una fabbrica. Il padre era un uomo del sud, emigrato in Piemonte negli anni del boom, e grazie all’aiuto dei suoi operai era riuscito a diventare titolare di un’azienda. Il figlio ha grinta, riesce a dare più forza alla ditta, conosce personalmente gli operai uno per uno. Ma arriva il momento della resa dei conti della crisi, con le banche che chiudono gli sportelli, le finanziarie che vogliono mettere le mani sull’impresa. Basterebbe una firma, la firma della suocera piemontese, di famiglia ricca, ma lui con orgoglio dice no, voglio farcela da solo. Questo lo porta a silenzi, difficoltà anche sul piano psicoologico, e quindi a una crisi che da sociale diventa anche interna, familiare.
Qualcuno ha parlato anche di noir
– In qualche modo sì, anche, visto che ci sono tensioni forti. Sono molto contento del cast, ho avuto tanti bravi attori, da Pierfrancesco Favino a Carolina Crescentini, Francesco Sanna… E un genovese che amo molto, Mauro Pirovano: disegna un ragioniere della fabbrica che passa le pene dell’inferno, a fare buste paga quando non c’è più un soldo.
Girato a Torino, nel cuore del Nord industriale…
– E’ stata una lavorazione abbastanza dura, perché abbiamo girato d’inverno in una Torino gelida, con giorni freddi e notti polari. Abbiamo iniziato esattamente un anno prima dell’uscita in sala, nel gennaio 2011. Per fortuna, però, avevo intorno il calore meraviglioso della troupe e della gente di Torino, città ferita da questa crisi come tutte le grandi città industriali. Siccome volevo trasmettere l’idea della crisi attraverso l’immagine di una città spenta, con poco traffico, semideserta, a volte facevo richieste che sembravano bizzarre, come togliere le auto parcheggiate in strada. Ma la gente del posto, che magari aveva appena trovato posteggio sotto casa, si è sempre prestata volentieri, perché quando spiegavo cos’era il film avvertivano che si trattava di una storia anche loro. E con grande affetto hanno partecipato alla nostra avventura, sia in centro che in periferia. D’altra parte, bastava andare un po’ fuori Torino, verso Pinerolo, per vedere subito capannoni abbandonati, striscioni di battaglie perse, piazzali vuoti… C’è stato poi un momento particolare. A un certo punto, l’auto dal protagonista doveva passare davanti a una fabbrica occupata, con striscioni, tende, lavoratori che manifestavano. Era difficile chiederlo a una fabbrica chiusa, con tutto il dolore che la chiusura aveva comportato. Così abbiamo chiesto a una fabbrica in funzione di prestarsi. Ma quando la scena era pronta, è successo il finimondo. Sono venute centinaia di persone a chidere cosa stava succedendo, c’è stata una mobilitazione di tutto il quartiere: temevano che davvero ci fosse un’altra fabbrica che stava chiudendo.
L’industriale ha una fotografia livida, quasi decolorizzata, ed è una cosa che accade più volte nei suoi film…
– Quando uno fa un film che ricorda certe epoche, e io ricordo tante battaglie per la sopravvivenza, si tratta di un film a colori o in bianco e nero? Per me è in bianco e nero! Qui rivedo le immagini di grandi battaglie sindacali viste in passato, ed erano in bianco e nero. Sono immagini livide perché quel ricordo è come fare un film sul 1945: adesso speriamo che tutto sia passato, ma temo di no.
Lei compie quest’anno mezzo secolo da regista, e sessant’anni di cinema. Al di là delle trasformazioni organizzative e tecnologiche, è cambiato qualcosa nel suo atteggiamento, nel suo modo di confrontarsi col suo lavoro, in tutti questi anni?
– C’è un’agilità dei mezzi molto più facile da gestire, è cambiata la sensibilità delle pellicole o del nastro, l’illuminazione… Oggi possiamo fare film ambientati in altre epoche con più facilità, e questo per la tecnica. Ma nelle nuove tecnologie siamo rimasti un po’ indietro. Se penso che nel 1985 con Vittorio Storaro e l’Arlecchino a Venezia eravamo stati i primi al mondo ad aver fatto alta definizione… Adesso siamo gli ultimi, o quasi. Ma il vero problema è un altro, e riguarda la scrittura. Come una volta, come sempre. La sceneggiatura, il perché, il come, la costruzione, i dialoghi… Una volta sono andato da Martin Scorsese e ho visto una pila altissima di sceneggiature, una sopra l’altra. Ho chiesto se erano sceneggiature in lettura, progetti. Mi disse: no, sono le varie versioni di Toro scatenato. Invece da noi il lavoro di scrittura spesso non viene capito, non viene pagato. Dire ciak senza avere una storia solida, una sceneggiatura ben costruita, non ha senso. Prima la testa: questa è la base del cinema cinquant’anni fa come oggi.
(di Renato Venturelli)