Due anni fa aveva presentato Nicolas W.Refn, quest’anno il Torino Film Festival ha avuto il suo evento più appassionante nella personale di Sion Sono, regista giapponese entrato da pochi anni nel giro dei grandi festival internazionali ma ancora inedito in Italia. Dopo i primi tentativi come poeta, autore di manga, attore o musicista, spiega lui stesso come aveva deciso di passare al cinema: “Scrivevo poesia, ma se avessi pubblicato libri la mia scrittura sarebbe diventata uniforme: con i caratteri a stampa le emozioni non possono trasparire come attraverso la propria calligrafia. Volevo che il mio stato d’animo rimanesse nella scrittura, ed è per questo che ho cominciato a fotografare le poesie che scrivevo in giro per la città, e che erano veri e propri graffiti”. Finché si chiese “e se aggiungessi il movimento?”, e cominciò a girare con una 8 mm.
Dopo quasi vent’anni di lavori a carattere più sperimentale, lui stesso vede il momento della svolta in Suicide Club (2002), film dall’incipit fulminante: in una stazione della metropolitana di Tokyo, decine di ragazze in divisa da studentesse si prendono per mano e si gettano insieme sotto a un treno, suicidandosi. In quella sequenza troviamo tanti aspetti ricorrenti nell’opera del regista: lo shock sullo spettatore, il rapporto tra individuo e dimensione collettiva, l’improvviso spezzare la propria “normalità” quotidiana per proiettarsi in un’altra dimensione.
La “trilogia dell’odio” porterà agli estremi questa poetica. In Guilty of Romance (2011) una timida mogliettina si getta improvvisamente nel mondo, affondando in una storia di orrore, crimine e prostituzione. In Cold Fish (2010) il proprietario di un piccolo acquario viene trascinato in un incubo di violenza estrema da un ricco concorrente serial killer, tra laghi di sangue e corpi squartati sotto le insegne della Madonna. E non è finita. In Strange Circus (2005) travestimento, voyeurismo, melò incestuoso si mescolano in un continuo ribaltamento d’identità, con un padre che chiude la figlia bambina dentro la custodia di un violoncello per assistere alle scene di sesso tra lui e la moglie. E Hair Extensions (2007) parte dalle lunghe capigliature tipiche di tanto horror giapponese per trasformarle in un delirio irrefrenabile.
Molti film di Sion Sono ruotano attorno alla scoperta dell’altra faccia della propria identità, a un’improvvisa discesa agli inferi che è al tempo stesso sconvolgente e rivelatrice: un’insistenza che forse ricorda anche “fino a che punto siano deboli la coscienza e la volontà dei giapponesi”, secondo quanto dice il regista. Il quale, comunque, non offre di sé un’immagine univoca, ma cambia continuamente registro, passando anche a opere molto più essenziali e intimiste: come osserva Emanuela Martini, c’è in lui “una sana reazione a un mondo che gli fa sempre più orrore”, ma “senza aver fatto dell’odio la sua moneta di scambio, nel senso che non è uno che provoca perché è quello che ci si aspetta da lui”. E tutto nell’ambito di una produzione torrenziale, fatta di almeno un film all’anno. D’altra parte, uno dei suoi registi prediletti è Fassbinder, di cui dice di amare due cose: “il suo modo di lavorare come un pazzo, cinque o sei film all’anno, senza distinzione fra opere maggiori o minori”, e “il fatto che i suoi lavori sono privi di humour: non c’è mai un lieto fine, sono tutte storie tragiche”.
(di Renato Venturelli)