Cannes 63


63rd Festival di CannesIl Festival del Film di Cannes è giunto alla 63ª edizione, con la solita alluvione di titoli spersi fra le sezioni ufficiali (Concorso, Un Certain Regard, Fuori Concorso, Cortometraggi, Cinefondation), iniziative collaterali autonome (Semaine de la Critique, Quinzaine des Réalisateurs) e, soprattutto, il mercato. Basta osservare gli spazi fisici in cui si articola il festival per rendersi conto dei rapporti di forza: lo spazio riservato alle proiezioni ufficiali è sicuramente minoritario rispetto alle aree e sale a disposizione del Marché.

Il complesso del cartellone ufficiale è stato costruito secondo l’usuale bilanciamento fra opere e registi di forte richiamo commerciale, affermati maestri del cinema, autori già sperimentati e nuove leve. A schermi spenti la valutazione, ridotta a un solo aggettivo, oscilla fra modesto e scarso. Non c’è stato un titolo capace di polarizzare gran parte dell’attenzione e anche quelli che sono andati meglio – Another Year (Un altro anno) di Mike Leight, Des Hommes et Des Dieux (Uomini e Dei) di Xavier Beauvois – non hanno varcato la soglia della sufficienza. Poiché sono vari anni che ci troviamo in questa situazione, vale la pena chiedersi il perché. Intanto va scartata l’ipotesi che vi fossero altri titoli sfuggiti all’occhio dei selezionatori.
Chiunque frequenta, anche sporadicamente, il mondo delle grandi esposizioni cinematografiche sa che hanno una forza contrattuale nei confronti dei produttori e selezionatori sperimentati e abili. Possono sfuggire loro uno o due titoli ma il resto finisce nella bisaccia che raccoglie il meglio in circolazione.

La riposta allora segnala la profonda crisi creativa che percorre il cinema a livello mondiale. Asciugate alcune fonti causa la censura interna (Iran) e messe in difficoltà altre nazionalità causa le scelte produttive apertamente commerciali (Cina), non resta che fare affidamento su qualche piccolo paese (Romania) incapace di sollecitare una produzione così copiosa da soddisfare le esigenze delle numerose, grandi manifestazioni cinematografiche che operano nel mondo.
A proposito di cinema rumeno c’è da dire che gli organizzatori hanno commesso l’errore di relegare i due film provenienti da quel paese – Marti, dupa Craciun (Martedì dopo Natale) di Radu Muntean e Aurora di Cristi Puiu – nella sezione Un Certain Regard, privando il cartellone della competizione di due puntelli che avrebbero potuto rinforzarne le sorti.
La Palma d’Oro è andata, e questa è una nota di merito, a un vero film da festival, una di quelle opere destinate ad avere vita durissima, se non impossibile sul mercato commerciale. Loong Boonmee raleuk chat (Lo zio Boonmee che si ricorda le sue vite precedenti) del thailandese Apichatpong Weerasethakul, racconta di un anziano malato di diabete che decide di andare a morire in campagna. Durante l’agonia rincontra
la moglie morta da anni, rivede il figlio sotto forma di grande scimmia dagli occhi rossi, parla del passato e del mondo che lo attende.

E’ un tipo di cinema sicuramente personale e di non facile lettura, poiché vi confluiscono moltissimi elementi specifici, come quelli tipici del pensiero religioso che crede alla trasmigrazione dell’anima fra gli uomini, le piante, gli animali e i fantasmi. In ogni caso è un film sicuramente da festival, uno dei pochi di questo tipo visti quest’anno.

(di Umberto Rossi)

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