Rupert Wyatt s’era fatto notare nel 2008 con Prison Escape, noto anche come The Escapist, uno dei migliori film carcerari degli ultimi anni. Certo, non se ne fanno mica più tanti, di carcerari, ma Wyatt ha dimostrato ampiamente di sapere il fatto suo.
E non è un caso che al centro de L’alba del pianeta delle scimmie, ottima sortita hollywoodiana dell’inglese, ci sia una spettacolare evasione. Wyatt, rispetto al ben più celebrato connazionale Nolan, conserva, per il momento i piedi ben piantati per terra. Approccia la saga delle scimmie in maniera rispettosa, non ha fretta di dimostrare che lui ci sa fare con gli effetti speciali, e si premura di costruire personaggi e situazioni credibili. Certo nel frattempo davanti agli occhi scorrono alcuni degli effetti speciali più sorprendenti degli ultimi anni, ma per fortuna sono completamente invisibili e pertanto la storia viene fuori con un sapore robusto, classicheggiante, proprio come i blockbuster degli anni Settanta che firmavano una volta Franklin Shaffner, John Frankenheimer o Richard Fleischer. Wyatt evidenzia un notevole piacere per la narrazione. Mette in scena dei conflitti credibili basandoli su delle premesse plausibili. Ed è solo nel finale, quando tutti i tasselli del racconto sono stati disposti strategicamente, che si abbandona al puro piacere dello spettacolo che, inevitabilmente, risuona di echi fortemente politici (gustoso il suggerimento di Roberto Silvestri che vede nella carica delle scimmie un riferimento ai black block…). “Quando l’evoluzione diventa rivoluzione”, oltre a essere la migliore tagline del decennio, esprime con grande precisione anche la trasformazione di una certa idea di cinema hollywoodiano, in grado di rinnovarsi attraverso le tecnologie messe a disposizione di una narrazione intimamente classica. In questo senso il film si offre anche come un attendibile “documentario” sullo sforzo che un certo cinema compie per continuare a restare al di qua della linea della verosimiglianza. Rispetto, per esempio, al cinema di Michael Bay che mira all’invisibilità pura della macchina, per metterne in scena solo ed esclusivamente il lavoro, un film come L’alba del pianeta delle scimmie, evidenzia alla perfezione l’idea che ciò che resta dell’umano nel cinema post-cinema praticato da Hollywood oggi, è soprattutto un ghost in the machine, ossia il fantasma tra le articolazioni della macchina. Senza il Cesare di Andy Serkis non ci potrebbe essere il film, ma Andy Serkis non si vede mai. Nemmeno per sbaglio. Le scimmie dunque sono il fantasma di ciò che resta dell’umano. Che come paradossale punto di partenza… terminale di un possibile post-umanismo non è male.
(di Giona A. Nazzaro)