Con Cut Amir Naderi apre la propria valigia dei sogni per realizzare uno dei film più cinefili della storia, dove la Settima Arte è un mezzo di fuga e di salvezza da una realtà cinica e violenta.
Nel 1953 uscì un piccolo film italiano di Luigi Comencini intitolato La valigia dei sogni, con il quale l’autore esprimeva la sua ammirazione per il cinema muto nazionale e per i cinefili stessi, soprattutto per coloro che recuperavano e conservavano pellicole storiche e preziose, le quali sarebbero altrimenti andate al macero.
Ebbene, quasi 60 anni dopo viene realizzato un film che, se pur completamente diverso per trama e stile, ha come obiettivo quello di omaggiare il cinema e, forse soprattutto, chi lo ama. L’opera in questione è Cut, ambientata e girata in Giappone dal regista iraniano Amir Naderi e presentata come film d’apertura della sezione Orizzonti al 68° Festival di Venezia.
Il soggetto è piuttosto semplice: il giovane regista Shuji è costretto ad estinguere il grosso debito che suo fratello, assassinato dalla Yakuza, doveva a tale organizzazione criminale. L’unico modo che Shuji ha per raggiungere questo scopo è farsi pagare per essere preso a pugni proprio nella stanza in cui è stato ucciso il fratello. Il protagonista riuscirà a resistere soltanto citando e pensando ai film che hanno segnato la sua vita.
Amir Naderi ha dichiarato che l’opera in questione vuole essere soprattutto un omaggio alla cinematografia giapponese. Se da un lato questo è vero, basti pensare alle scene oniriche in cui il protagonista va a visitare le tombe di coloro che considera i suoi maestri (Yasujiro Ozu, Akira Kurosawa e Kenji Mizoguchi), dall’altro l’opera non dimentica di citare anche capolavori di altri paesi, compiendo così un vero e proprio atto d’amore per l’intera storia della Settima Arte.
Inoltre, il protagonista è paragonabile per spirito, mentalità e passione al gruppo dei Cahiers du Cinema e a Francois Truffaut in particolare. Infatti, per entrambi il cinema è altrettanto e forse più importante della vita, in quanto è l’amore per le pellicole che influenza le loro scelte e domina completamente il loro quotidiano, ed è il cinema l’unico scopo della loro esistenza e l’unica missione per cui valga la pena lottare.
I punti in comune tra il maestro francese e il fittizio cineasta giapponese vengono sottolineati anche dalle numerose scene dei pugni: come scritto precedentemente, il protagonista resiste al dolore pensando e citando film, un po’ come faceva Truffaut da giovane quando lavorava alla catena di montaggio, il quale, per alleggerire la fatica, ripensava alle sequenze dell’opera vista il giorno prima (si veda il libro Francois Truffaut. Tutte le interviste sul cinema, a cura di Anne Gillain).
Anche l’ultima parte, quella in cui Shuji cita le sue cento pellicole preferite, ricorda vagamente Truffaut e in modo più specifico il suo libro I film della mia vita.
L’ossessione per il cinema e per i film viene ben rappresentata anche dalle scene in cui alcune opere – da La strada (F. Fellini, 1954) a Mouchette, tutta la vita in una notte (R. Bresson, 1967) – vengono proiettate sul petto nudo del protagonista, sequenze che simboleggiano la passione di Shuji, una passione viscerale che passa anche attraverso il corpo, una passione che coinvolge la mente, il fisico e le emozioni, una passione che travolge completamente l’esistenza e che, talvolta, salva la vita.
Così, il cinema è visto anche come l’unica salvezza e via di fuga possibile dalla realtà, una realtà che Naderi descrive in modo freddo e ironico come cinica e violenta, la quale basa la propria economia e i propri divertimenti sul sopruso e sulla sottomissione dell’altro, una realtà che nel migliore dei casi è composta da persone che girano indifferenti, come dimostrano le diverse inquadrature di una folla anonima che cammina per le strade di Tokyo.
I diversi e numerosi frammenti dei classici della storia del cinema non vengono usati solo come delle citazioni fine a se stesse con l’unico scopo di divertire gli appassionati, ma sono piuttosto rielaborati dall’autore per intraprendere un discorso complesso sulla settima arte e sulle sue funzioni, facendo di Cut non solo uno dei film più cinefili mai visti, ma anche uno dei più profondi e riflessivi sul cinema stesso, quasi quanto quel piccolo capolavoro che è La rosa purpurea del Cairo (W. Allen, 1985).
Altro grande merito del film è quello di non annoiare lo spettatore e di non essere mai prolisso, nonostante una durata di più di due ore e di una trama un po’ ripetitiva e senza particolari colpi di scena. Naderi riesce a raggiungere questo difficile risultato grazie a delle buone interpretazioni; ad una sceneggiatura cinica, folle e ironica, in cui i rapporti tra i personaggi vengono descritti in maniera sottile e mai superficiale; ad un montaggio classico, lineare, ma per nulla banale, in cui anche il sonoro acquista un’importanza amplia se pur non immediatamente percepibile, basti pensare all’ultima, straordinaria, parte.
Certo, Cut rimane un film apprezzabile soprattutto dai cinefili, ma risulta comunque una delle migliori opere presentate all’ultima Mostra Internazione d’Arte Cinematografica di Venezia.
(di Juri Saitta)
Cut
Regia: Amir Naderi
Cast: Hidetoshi Nishijima, Takako Tokiwa, Takashi Sasano
Sceneggiatura: Amir Naderi, Shinji Aoyama
Paese: Giappone
Genere: Drammatico
Durata: 131 minuti circa