Quando lo vedi arrivare con la sua camicia dai polsini ben risvoltati, il passo veloce e sicuro, lo sguardo profondo e diretto e quel sorriso così aperto ti vengono in mente milioni di domande da porgli.
Poi, seduta al tavolino con lui, risulta difficile continuare a seguire la tua idea di intervista, perché il giovane regista è un fiume di parole e pensieri che sfociano sulle rive di terre diverse. Dal cinema alla letteratura, dalla sociologia alla filosofia, dal gruppo al singolo, il viaggio di Prometeo si articola in tante tappe per fare capolino in quel luogo che a volte pare essere il più lontano. La propria anima.
Per Prometeo Deportado e per il tuo cinema in generale ti sei ispirato a qualche regista in particolare?
Direttamente no, ma ci sono diversi autori che amo molto, a cui mi ispiro indirettamente.
Penso ad esempio a Ettore Scola, con pellicole come Ballando ballando (1983) e Brutti, sporchi e cattivi (1976), ma anche a Federico Fellini, al regista cubano Tomás Gutiérrez Alea e al venezuelano Romàn Chalbaud con un’opera come El pez que fuma (1977).
Indubbiamente mi hanno influenzato molto cineasti quali Luis Bunuel con L’angelo sterminatore (1962) perché nel suo film, come nel mio, tutti i personaggi rimangono bloccati in un posto da cui non riescono a uscire, Andrej Tarkovskij rispetto alla concezione filosofica del cinema e anche Robert Altman, il suo piano sequenza ne I protagonisti (1992) mi ha molto colpito per la capacità di muovere la macchina da presa.
Nel film si può notare che ogni attore ha particolari caratteristiche che fanno di lui il personaggio del gruppo. Perché proprio queste identità?
F.M. Il mio film l’ho pensato sin dall’inizio come un murales di immagini, una sinfonia di personaggi nella quale io fossi il direttore d’orchestra. La pellicula vuol essere una “radiografia” del collettivo equadoriano degli ultimi anni, analizzata e studiata nei suoi archetipi più che nei tipi. La differenza tra i due sta nel fatto che il tipo rappresenta, in quanto identità piatta, al contrario l’archetipo è portare di un significato che a seconda delle diverse convenzioni e dei molteplici contesti nel quale è inserito presenta una propria essenza, peculiarità, personalità.
E perché proprio al personaggio dell’atleta il ruolo di svolta nella parte finale?
F.M. Questa è una domanda che tanti in Equador mi hanno fatto. L’atleta vuol essere come Amleto, colui che non sa mai cosa fare ma che agisce in merito alle condizioni dell’ambiente nel quale si trova. Quindi, nella situazione di caos che si era generata non poteva far altro che vendicarsi e porre pace nel gruppo.
Nella prima scena del film compari anche tu… nelle vesti allora di quale personaggio?
F.M. La scelta di comparire nel film l’ho presa sulla base della mia personale esperienza da turista vissuta nel 1993 che mi ha visto in viaggio per l’Europa, trattenuto in aeroporto e rimpatriato a forza. Il Portogallo devo ancora vederlo.
Attore e autore, finzione e realtà, limiti davvero invisibili…
F.M. Si, impercettibili. È davvero difficile scrivere, riprendere e partecipare al tuo film. Porsi dentro e fuori ciò che si racconta, essere visibile e invisibile sulla scena, ricoprire il ruolo dell’autore, attore e narratore per cambiare sempre il punto di vista, per analizzare la realtà da angolazioni diverse. Volevo che il mio progetto si avvicinasse alla forma del Don Chisciotte o a quella pirandelliana di Sei personaggi in cerca d’autore, ma nella letteratura creare l’inganno dei ruoli è molto più facile. Il Cinema deve fare sempre i conti con la realtà, ma ha dalla sua parte il vantaggio della doppia dimensione spazio-temporale grazie alla possibilità dello spazio-sequenza. E se ci pensiamo è proprio l’unica forma d’arte che si dispiega nel tempo e nello spazio, contemporaneamaente.
Perché introdurre l’elemento magico e dargli l’importanza del finale?
F.M. La magia è un aspetto molto presente nella tradizione e leggenda dell’Equador. E ho voluto ricorrere alla sua presenza nel finale per lasciare allo spettatore la sua libera interpretazione. Io credo che si possa parlare di Magia quando sappiamo guardare dentro noi stessi, quando impariamo a fidarci l’uno dell’altro aprendoci senza pregiudizi e paure. Non è un caso che le manette di Prometeo si slacciano solo quando, con il taccuino aperto dello scrittore, il mago e Afrodita metteranno a nudo la propria vita, si racconteranno realmente per quelli che sono mettendo da parte le menzogne che l’apparenza impone. E quel baule dove tutti i personaggi entreranno senza mai uscire credo sia la propria anima, la propria coscienza. La via della libertà ha inizio dal viaggio dentro la nostra vera e profonda identità.
(di Chiara Accogli e Juri Saitta. Foto di Stefania Bianucci)