Clara Salgado è un’attrice e regista teatrale e cinematografica, nata in Ecuador, ma che vive in Italia da un po’ di anni.
È soprattutto grazie a quest’artista che è stata possibile la retrospettiva del Genova Film Festival Oltre il confine – Il cinema ecuadoriano, con la quale abbiamo avuto l’occasione di vedere una serie di corti e lungometraggi di una cinematografia nascente ma da noi ancora sconosciuta.
Attraverso tale rassegna e all’introduzione scritta dalla Salgado per il libretto del Festival, stiamo cominciando a sapere qualcosa di più sul cinema ecuadoriano.
Ieri, dopo la proiezione di una serie di cortometraggi, abbiamo intervistato l’attrice e regista, con cui si è parlato di cinema e teatro, storico e attuale, ecuadoriano e italiano.
Ci puoi parlare brevemente della storia del cinema ecuadoriano?
Purtroppo in Ecuador c’è una scarsa memoria storica del nostro cinema. Detto questo, probabilmente il primo film ecuadoriano della storia risale al 1914, ma ne esistono solo poche tracce. Le prime due pellicole di cui invece si sono conservate le testimonianze sono degli anni ’20: El tesoro di Atahualpa di Augusto San Miguel del 1924, di cui abbiamo anche la prima locandina e Los invencibles Shuaras de alto Amazonas diretto da Carlos Crespi Legano, un missionario italiano venuto in Ecuador da Padova.
Negli anni ’30 il nostro cinema ha cercato di adeguarsi alla nascita del sonoro, ma sorprendentemente il pubblico non ha gradito, così la produzione cinematografica si è arrestata ed ha iniziato a concentrarsi maggiormente su reportage e cinegiornali.
Negli anni ’50 vennero realizzate due pellicole, purtroppo non molto rappresentative della cultura del paese e così anche di queste si sono conservati solo dei frammenti.
Solo negli anni ’60 alcuni intellettuali hanno cominciato a preoccuparsi della produzione e della conservazione dei nostri film, fondando l’”Associazione degli autori ecuadoriani”.
Dalla tua introduzione si legge che la vostra cinematografia è rinata alla fine degli anni ’80 con La tigra. Perché tale cambiamento è avvenuto proprio in quel periodo?
La svolta c’è stata in quegli anni perché, già a partire dalla fine dei ’70, è nata una grande collaborazione con il Messico, con cui si sono realizzate diverse co-produzioni.
Bisogna sapere che il cinema messicano da noi era alquanto popolare e i loro attori molto amati e conosciuti. Le co-produzioni messicane/ecuadoriane, grazie a queste “star”, riscontrarono un grande successo in sala e così si crearono diverse occasioni per chi in Ecuador voleva lavorare nel mondo del cinema.
Camilo Luzuriaga si rese del conto del clima favorevole, così nel 1990 girò La tigra, basandosi su un racconto di José de la Cuadra.
Il film ebbe però più successo all’estero che in Ecuador, perché evidentemente troppo lento per poter essere apprezzato fin da subito dal nostro pubblico, abituato per anni e anni a consumare soprattutto film hollywoodiani commerciali.
La pellicola che però ha dato la vera svolta è stata Ratas, ratones, rateros di Sebastiàn Cordero, che, oltre ad essere stata presentata al Festival di Venezia, ha avuto un grande successo internazionale e nazionale. Quest’ultimo è stato possibile anche grazie al fatto che il film ricorda da vicino il cinema statunitense.
È anche una pellicola molto ironica…
Assolutamente. L’ironia è un elemento portante del cinema ecuadoriano, perché fa parte del nostro modo di essere.
Sappiamo che hai recitato nell’ultimo film di Margarethe Von Trotta. Com’è avvenuto l’incontro e come è stato lavorare con una regista del suo calibro?
Stavo mettendo in scena uno spettacolo teatrale tratto da un film di Rainer Fassbinder, Katzelmacher, in italiano Lo straniero, incentrato su un gruppo di giovani che scarica tutte le sue frustrazioni su un emigrato.
In quel momento mi chiamò Richard Blunk, un regista con cui ho lavorato molto e con cui sono in ottimi rapporti, il quale mi comunicò che alla Von Trotta serviva un’attrice “straniera” per un ruolo minore e così ho avuto l’occasione di recitare nel suo ultimo film.
Lavorare con Margarethe è stato bellissimo, è una regista davvero fantastica.
Da attrice a regista, dal teatro al cinema, quali elementi i due diversi ruoli e mondi si possono scambiare?
Partendo dalle esperienze teatrali e arrivando, casualmente, a quelle cinematografiche posso dire che il teatro può educare il cinema essendo una scuola prima di tutto di disciplina e rispetto. D’altra parte il Cinema e in particolare il suo essere regista influenza il mondo teatrale nella ricerca di pazienza e intimità. Quindi i due ruoli diversi che mi hanno vista dietro e davanti la telecamera permettono un continuo scambio di saperi e caratteristiche indispensabili per entrambi. Avere delle regole da seguire, farsi rispettare senza presunzione, ripetere scene su scene mantenendo la calma e un clima di serenità e, soprattutto, stringere con tutti i colleghi, dagli attori ai collaboratori del set, un rapporto stretto, vicino e umano. Credo che siano proprio questi gli elementi che fanno del teatro e del cinema due mondi complementari.
Come vedi la situazione teatrale italiana e hai qualche progetto in merito?
Purtroppo noto una situazione statica e con poca vita teatrale, tanta teoria e poca pratica. Mancano i teatri sperimentali, sceneggiature originali, un teatro che sia vissuto in scena e nel pubblico. A Pordenone, dove vivo, tre anni fa, ho fondato una scuola che ho voluto appositamente chiamare Compagnia degli Imprevisti. Abbiamo messo in scena Noccioline di Fausto Paravidino, autore che stimo moltissimo e ora, continuando a conoscerci e a crescere come gruppo, ci stiamo preparando per uscire dai confini friulani. Ho pensato di adattare il soggetto di un mio lungometraggio mai pubblicato alla forma teatrale, un duello tra ecuadoriani e friulani. Ma a Pordenone sono proprio poche le persone dell’Ecuador…e allora perché non pensarlo proprio qui in un teatro genovese.
E riguardo al Cinema, che idea ti sei fatta del panorama italiano?
Io ho due figli, una di 13 e l’altro di 17 anni. Devo suggerirli io di andare a vedere film italiani, loro sono un po’ diffidenti avendo visto già tanto e un po’ di tutto.
Il grande problema credo che stia nei circuiti della produzione e distribuzione. Una totale chiusura alle novità e alle nuove proposte. Si ha paura di dare fiducia a chi non si è mai visto prima o a contenuti e forme cinematografiche ancora non sperimentate. Il soggetto del mio lungometraggio non ha mai avuto una risposta dai produttori italiani, eppure se la vediamo anche solo da un punto di vista commerciale potrebbe funzionare. Sai quanti ecuadoriani ci sono in Italia che verrebbero al cinema sapendo che si parla di loro? Sono dovuta andare in Francia e in Spagna per fare questi discorsi!
(di Juri Saitta e Chiara Accogli, foto di Stefania Bianucci)