Madri che lavorano mentre i figli sono accuditi da altre madri che lavorano mentre i loro figli sono accuditi da altri. Migrazioni. Precarietà del lavoro. Alienazione in fabbrica. Sono alcuni dei temi su cui riflette Hai paura del buio di Massimo Coppola, in concorso alla Settimana della critica della scorsa Mostra di Venezia e ora in sala.
Una giovane e bella operaia di Bucarest perde il posto di lavoro, vende il mobilio di casa e parte per Melfi, Basilicata, Italia. Lì trova ospitalità da un’altra giovane e bella operaia della Fiat. Sembra un viaggio casuale, ma non lo è. La soluzione finale sta nell’unico dialogo articolato di tutto il film, per il resto un racconto per immagini fluide: la macchina da presa segue le due donne, le racconta in primissimi piani spesso da punti di vista insoliti o scentrati. I dettagli diventano protagonisti: un ciuffo di capelli, una parte del corpo, un vestito di paillettes.
Uno stile allo stesso tempo documentarista e calligrafico, che gioca anche su un montaggio poeticamente sporco dei suoni e della musica (quasi sempre diegetica), quello di Coppola: quarantenne salernitano famoso per avere ideato – e spesso anche condotto o diretto – alcuni dei programmi che hanno fatto la storia di Mtv e non solo, come Brand New, approfondimento sulle nuove tendenze musicali, l’anti-reality Pavlov, e la serie di documentari Avere Ventanni.
“Lo stile non è altro che il risultato della nevrosi visiva di chi gira – ha spiegato Coppola dopo l’anteprima genovese del suo film alla sala Corallo – Un filmmaker non fa altro che scegliere dove guardare con la macchina da presa. Io mi considero ossessivo perché mi piace guardare uno spazio breve per un tempo lungo. E soffermarmi sul volto femminile è per me una tentazione irresistibile. Allo stesso tempo scelgo un montaggio con pochi tagli, quindi nei miei film più che tanti primi piani ci sono pochi tagli e quindi quei primi piani sono più significativi”.
Quanto è stata importante la scelta della colonna sonora? Ci ha pensato prima, durante o dopo le riprese?
“Prima ancora di aver iniziato la sceneggiatura avevo chiaro lo score che avrei voluto e come lo avrei usato. Ma i brani dei Joy Division non sono orecchiabili e non c’erano i soldi per pagarli, per questo la produzione ha insistito perché scegliessi un musicista che componesse qualcosa ad hoc. Ma poi i Joy Division hanno accettato e per me è stata una grande gioia”.
E come ha lavorato sulla sceneggiatura?
“Ne ho scritto una prima versione in una decina di giorni nel 2006 mentre ero a Cuba e la Romania era ancora fuori dall’Unione Europea. Poi c’è stato l’iter di raccolta dei fondi e verso la fine del 2008 il produttore mi ha detto che il film si sarebbe fatto: io a quel punto avrei voluto cambiare tema perché tante cose erano cambiate, ma gli aiuti erano per quel soggetto, così ho dovuto riscrivere l’80% del copione”.
Perché la Romania?
“Avevo girato lì parte di un documentario che segue le vicende di un ragazzino di un campo nomadi milanese che torna a casa dopo anni. Arrivato a Bucarest mi colpì la luce quasi “americana” che scende dall’alto. La città venne costruita secondo una legge per cui tutti i palazzi dovevano essere alti otto piani e questo crea delle fughe prospettiche fantastiche. In più il cemento usato assorbe tantissimo la luce, quindi il contrasto è naturalmente molto alto. Non ho lavorato molto in postproduzione perché il paesaggio crea da sé una certa pienezza e ruvidezza, in contrasto con la nebbiolina che invece si trova a Melfi. Poi la terra della campagna rumena ha i toni del rosso e dell’ocra e anche questo crea un effetto interessante”.
(di Francesca Felletti)