Il regista polacco parla dei suoi nuovi film. E ricorda come arrivò in Polonia Le mura di Malapaga
Non ti aspetti di incontrarlo così: seduto a un bar del Porto Antico di Genova a leccare francobolli per una pila di cartoline, come un qualunque turista di una certa età. È Krzysztof Zanussi, uno dei maggiori registi polacchi viventi e uno dei pochi – insieme a Roman Polanski, Andrzej Wajda e all’attore Jerzy Stuhr – il cui nome arriva anche nelle nostre sale. Classe 1939, di origine italiana (parla la nostra lingua senza averla mai studiata con estrema padronanza), dopo gli studi universitari in fisica e filosofia si laurea anche alla Scuola di cinema di Lodz.
Nei suoi film – La struttura del cristallo, Illuminazione, L’anno del sole quieto, Persona non grata, ecc. – indaga la condizione umana sotto gli effetti della storia, della politica, dell’amore della religione e della scienza, con uno stile semplice ed essenziale. Autore di saggi sul cinema e di una autobiografia Tempo di morire. Ricordi, riflessioni, aneddoti, Zanussi insegna in diverse scuole e università e dirige in teatro.
Continuando ad attaccare francobolli spiega:
“Quand’ero piccolo a scuola si faceva una riunione tutti gli anni dopo le vacanze estive per vedere chi aveva ricevuto una cartolina dall’estero,
e così mi è rimasta l’abitudine. Scrivo ai miei amici che non ho il tempo di chiamare e a quelli che saranno sorpresi di ricevere qualcosa da me. Ad esempio l’attrice della pièce teatrale che ho da poco messo in scena: così prima delle vacanze può sognare un po’ di Italia”.
Che panorami ha scelto per le cartoline?
“La lanterna. Ero già stato a Genova negli anni ’80 per le riprese di una produzione tedesca ma ora ho appena scoperto che qui si trovano le
mura di Malapaga, dove si svolge l’omonimo film di René Clément. Io lo vidi nel mio Paese negli anni Cinquanta, sotto lo stalinismo. Con il
doppiaggio modificarono completamente la sceneggiatura e io mi ricordo di un grande eroe comunista rivoluzionario, Jean Gabin, ingiustamente perseguitato; e di Isa Miranda che citava sempre Lenin. Solo dopo ho scoperto che questa non era proprio la versione originale. Ai tempi si diceva che i paesi progressisti dovevano migliorare i film dei paesi capitalisti, così se gli autori non erano all’altezza del
progresso, si poteva aggiungere qualcosa.
Oggi nella maggior parte dei paesi non si doppia più perché oltretutto alla gente piace l’autenticità e il doppiaggio, cambiando la lingua,
cambia la mentalità dei personaggi, il loro modo di pensare”.
I suoi film sono una riflessione sul genere umano e sulla vita. Qual è secondo lei la funzione del cinema: raccontare storie, trasmettere messaggi, o cos’altro?
“Sarei cauto con i messaggi, perché l’arte non può mai essere didattica, didascalica: questo sarebbe un ruolo banale e inutile. Spesso i potenti e la Chiesa hanno sognato un asservimento dell’arte a strumento di educazione, ma essa ha un significato molto più importante: esplorare la solitudine dell’uomo. Tramite l’arte possiamo penetrare gli ambienti, incontrare dei personaggi che altrimenti non conosceremmo.
Questo amplia molto il nostro orizzonte: ci permette di capire l’Altro nel villaggio mondiale in cui viviamo oggi. E questo è un compito pratico
ma non è un messaggio come tale, perché per quello si può sempre mandare un sms”.
Come nascono le idee che stanno dietro ai suoi film?
“Sono sempre storie ispirate dalla vita, dalle mie vicende personali, dagli incontri che faccio. Alcune maturano nella mia mente durante gli anni, altre le scrivo subito, ma c’è sempre dietro qualcosa di reale, di vero.
Prendendo ad esempio il suo ultimo film Rivisitati?
Qui c’era una domanda che mi fanno molto spesso gli spettatori giovani: supponiamo che i personaggi di tutti i suoi film vivano ancora: come hanno passato i momenti chiave della vita politica polacca, quando la gente ha riconquistato la libertà e si è tornati alla normalità? Un
giorno ho pensato: perché non rispondere a questa domanda facendo un film? E così ho fatto.
Com’è stato ritrovare i protagonisti di Colori mimetici, Costans e Vita di famiglia?
Mi ha colpito molto l’aspetto fisico del passaggio del tempo, che ha marcato i volti dei miei attori.
Certi sono invecchiati bene, certi male. Nel film si parla di questo: ho inventato delle storie per spiegare che cosa è successo a questi personaggi, che cosa hanno vissuto e come possano tirare le somme della loro vita. Tutti siamo costretti, prima o poi, a fare un bilancio per capire perché siamo venuti su questa terra, che cosa abbiamo lasciato e se c’è qualcosa di buono in quello che abbiamo fatto. La domanda chiave è: come abbiamo sfruttato il potenziale che ci è stato dato?
Il cinema, invece, come è cambiato in questi ultimi decenni?
Il cinema trent’anni fa era molto più avanzato: i film di Fellini, di Pasolini, di Antonioni oggi sono impensabili. Non è colpa degli effetti speciali, ma della grande pigrizia della società del benessere: si vive tanto bene che si evita qualsiasi riflessione seria. In passato abbiamo avuto un linguaggio molto sofisticato con Tarkovskij, Godard, Resnais. Oggi invece tutto è molto semplice, elementare. C’è poi una tendenza europea per cui il cinema nazionale sta diventando un cinema locale. Mi spiego con un esempio pratico: se uscisse ora in Polonia Il divo, siccome nessuno sa chi è Andreotti, sarebbe considerato un film esotico e nessuno capirebbe se questo personaggio è vero o inventato.
A cosa sta lavorando?
Prossimamente, oltre al teatro, vorrei coprodurre un film con l’Italia perché uno dei personaggi, un attore sconosciuto, è italiano. La storia è quella di un uomo assediato da donne libere che cercano di corromperlo. Il film si chiamerà Corpo estraneo, e io sono nominalista: se c’è il titolo credo che ci sarà il film.
(di Francesca Feletti)