Gli italiani appassionati di cinema che – se non altro per motivi anagrafici – hanno potuto vedere i suoi primi film sul grande schermo, hanno subito legato il nome di Sydney Pollack a quello degli altri protagonisti del movimento anti-hollywoodiano affermatosi negli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta e Settanta. E ciò nel bene come nel male. Tanto che, con quei suoi primi film, Pollack non solo suscitò allora entusiasmi sovente esagerati tra gli spettatori e i critici che aspettavano solo di trovare anche oltre Atlantico degli alleati per la loro annosa polemica nei confronti del cinema classico americano, ma fu pure oggetto di aspro vituperio, forse eccessivo, da parte di quei cinéphiles che mal sopportavano gli scombussolamenti narrativi e linguistici che, muovendo dall’Europa, stavano proprio in quegli anni cambiando radicalmente il cinema, diffondendosi in tutto il mondo, America compresa. Il successo ottenuto in Italia da Non si uccidono così anche i cavalli? (1969), favorì il recupero sul grande schermo di Joe Bass l’implacabile e di Ardenne ’44 (più tardi anche di La vita corre sul filo e Questa ragazza è di tutti), ma soprattutto ben dispose gli animi degli spettatori più aperti al nuovo alla buona accoglienza del trittico cinematografico che impose all’attenzione europea l’accoppiata Sydney Pollack e Robert Redford: vale a dire, il western Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972), il melodramma Come eravamo (1973) e il thriller I tre giorni del Condor (1975). Il gioco era fatto. Pur ormai vicino ai quarant’anni, Pollack fu frettolosamente intruppato tra i giovani registi del cinema americano, caricato di certo eccessiva consapevolezza rivoluzionaria, applaudito come il nuovo che avanza. Molti erano gli elementi che sembravano far confluire i giudizi verso una simile considerazione: innanzitutto, il fatto che Pollack appariva inteso a manipolare i generi cinematografici, rovesciandone le più radicate convenzioni narrative; poi, c’era quel suo modo disinvolto (si capì ben presto derivato soprattutto dalla lunga esperienza televisiva) di gestire il linguaggio cinematografico, con tanto di abuso dello zoom, disarticolazione del montaggio e scelte fotografiche molto “flou”; ma soprattutto, veniva ammirata quella tendenza dei suoi protagonisti a schierarsi sempre dalla parte dei vinti, dell’altro da sé, lontano dalla propria cultura d’origine. Siano questi protagonisti i diseredati di Non si uccidono così anche i cavalli?, ambientato negli anni della grande depressione. O i depositari dei nobili valori artistici e culturali del bel tempo antico, distrutti dalla guerra in Ardenne ’44. O i membri della civiltà indiana distrutta dall’avanzata dei pionieri e rimpianta in Corvo rosso non avrai il mio scalpo. O quegli ideali negati dal buon senso storico nel corso dei vent’anni d’amore e di liti della coppia protagonista di Come eravamo. Nel confuso decennio a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il cinema di Pollack è sempre dalla parte dei deboli contro il potere costituito, come viene enunciato in I tre giorni del Condor, ma è anche ben disposto ad affermare che gli altri sono comunque meglio di noi, come si sostiene in Yakuza, giungendo sino al punto di una un po’ imbarazzante mitizzazione della mafia giapponese.
Il cinema di Sydney Pollack è proprio fatto così: generoso ed elegante, sempre disposto ad accogliere le ragioni degli altri e a portarle in primo piano. È il cinema di un galantuomo generoso e di un democratico sincero. Oggi si può forse dire, rovesciando un giudizio che sembrava consolidato dal tempo, il cinema di un regista all’antica, come ben dimostrano i suoi film seguenti a quei cinque o sei già citati e troppo frettolosamente esaltati in Italia e in Europa (ma non negli Stati Uniti) per in fin dei conti inesistenti meriti di innovazione linguistica e culturale. Con il trascorrere degli anni, infatti, attraverso i dieci film che vanno da Un attimo, una vita (1977) a The interpreter (2005), Pollack ha sempre più rivelato la propria natura di professionista preoccupato non tanto di evidenziare una natura autoriale, quanto soprattutto di mettere per immagini una storia, ponendosi sovente al servizio dell’attore protagonista e sortendone così film più o meno interessanti a seconda delle virtù divistiche di questo (uomo o donna che sia), ma anche della sapienza drammaturgica con cui quella è stata scritta dai suoi sceneggiatori (con in primo piano il prediletto David Rayfiel). A ben guardare, infatti, i film di Pollack sono molto più vicini a quelli degli anonimi Sidney Lumet o di Barry Levinson che a quelli di un regista dalla forte personalità quale Robert Altman, cui è stato pur sovente avvicinato. A lui piacciono soprattutto gli attori e le storie che permettono di valorizzarne le virtù recitative: in fin dei conti, il suo sguardo d’autore si limita a immergere ogni vicenda in un clima dolce e sfumato, attraverso il quale predilige guardare gli esseri umani e i fatti della vita con un occhio inumidito dalla malinconia. Altro che innovatore o rivoluzionario. Nei suoi film, Pollack sembra soprattutto un regista del passato, il quale scopre con sgomento di dover lavorare in un cinema che ha ormai perduto gli argini delle certezze di cui erano una volta paladini i grandi Studios. Per questo, il suo sguardo sulla realtà finisce col coincidere con quello del suo attore preferito, Robert Redford: è aperto e onesto, gentile e amorevole, ma soprattutto è languido e vagamente inespressivo, nella sua ansia di fare il meno possibile. È con uno sguardo simile, infatti, che Pollack osserva la fine del breve incontro e del grande amore tra un pilota di Formula 1 (Al Pacino) e una donna malata di cancro (Marthe Keller) in Un attimo, una vita; racconta la storia d’amore tra un uomo (ancora Robert Redford), una donna (Jane Fonda) e un cavallo bianco in Il cavaliere elettrico; affronta con Paul Newman e Sally Field lo spinoso problema della responsabilità del giornalismo in Diritto di cronaca; si diverte a vestire con abiti femminili Dustin Hoffman in Tootsie e a partecipare con Meryl Streep al mal d’Africa della futura scrittrice Karen Blixen (La mia Africa). E il suo atteggiamento, di fatto, non cambia neppure in seguito: sia che racconti, nel ricordo di Casablanca, la caduta di Batista nella Cuba del 1958 (Havana) o si avventuri nei meandri del thriller legale cari allo scrittore John Grisham (Il socio) o metta mano a un impossibile remake di Billy Wilder (Sabrina) o si cimenti con il poliziesco secondo Warren Adler in Destini incrociati o mescoli i dolori vedovili di un poliziotto (Sean Penn) con le lacrime di paura di Nicole Kidman, interprete dell’Onu che ha sentito qualcosa di troppo (The interpreter).
Superata ormai la soglia dei settant’anni, Sydney Pollack fa sempre più film che gli assomigliano: eleganti, scorrevoli, gentili nei loro risvolti sentimentali, ben interpretati nell’ambito di un’idea attoriale che eviti accuratamente ogni sgradevolezza. Un cinema perbene e piacevole da vedere. Rivolto più al passato che al futuro. Sovente illuminato da una sua personale performance attoriale in un ruolo di contorno, capace di dare improvvisamente senso e vita all’intero film. Perché a Pollack non solo piacciono gli attori, ma piace fare l’attore. E, con il trascorre degli anni, soprattutto in questo mette sempre più il meglio di sé: magari partecipando in questa veste, con allegria e competenza, anche a film degli altri, come negli ultimi tempi gli è accaduto sempre più spesso di fare: ora al fianco di Woody Allen (Mariti e mogli, 1992) o di Stanley Kubrick (Eyes Wide Shut, 1999), ora per registi più anonimi quali il Tony Gilroy di Michael Clayton (2007).
(di Aldo Viganò)
Chi è
Sydney Pollack nasce a Lafayette, nell’Indiana, il 1° luglio 1934, da una famiglie di emigrati ebrei russi. Il padre David era rappresentante farmaceutico e la madre, Rebecca Miller, faceva la donna delle pulizie; dopo il divorzio dal marito finì alcolizzata e morì a soli 37 anni nel 1950. Terminati gli studi alla Central High School, Sydney si trasferisce a New York, attirato soprattutto dal mondo del teatro. Frequenta la scuola d’arte drammatica alla Neighborthood Playhouse (1952-1954), fa il servizio militare e torna poi alla Neighborthood Playhouse con l’incarico di insegnante e, per sette anni, diviene assistente del suo maestro Sanford Meisner. Per qualche anno fa l’attore a teatro, poi scopre il mondo della televisione, diventando autore di sceneggiati e di telefilm. Durante la realizzazione della serie Playhouse 90, conosce John Frankenheimer, grazie alla cui amicizia accede ben presto anche alla regia, trovandosi aperte dal 1961 le porte di Hollywood. Qui, il passaggio dalla televisione al cinema diventa breve. Nel 1958 si è sposato con una sua studentessa, Claire Griswold, dalla quale ha tre figlio: Steven, morto nel 1993 in un incidente aereo, Rebecca e Rachel. Sydney Pollack è produttore e interprete di molti film suoi e di altri registi.
IL CINEMA SYDNEY POLLACK
L’America ci manca. Manca anche a me. Ora, l’America è la Cia e il Watergate. E allora, perché diavolo ci manca tanto?
La televisione era una situazione ideale per sperimentare; se era un brutto prodotto non aveva importanza, durava appena un’ora e la settimana seguente si tentava un’altra cosa.
Il periodo dei grandi Studios è ormai finito. Frankenheimer ha detto, ed è vero, che adesso non ci sono più film hollywoodiani. Ci sono film americani come ci sono film inglesi, francesi… Niente più film hollywoodiani. Ciò significa che tutto è piccolo, indipendente e, anche se i grandi Studios continuano a produrre, non ti danno più noie, non intervengono più come avevano abitudine di fare.
Oggi gli Studios sono totalmente diretti da multinazionali e sono solo una piccola parte di Corporations molto complesse. L’individualità è finita, oggi si cerca conformità, si cerca ciò che raggiunge il massimo numero di persone nel minor tempo. Una volta gli Studios erano posseduti da individui. Sam Goldwyn, David O. Selznick lasciavano un’impronta leggibile nei loro film, come Sam Spiegel: avevano tutti opinioni personali e individuali motivazioni, erano tutti dei forti creatori.
Poche cose esprimono la verità quanto le bugie. Se vi servono la verità su un piatto, come per noi ad esempio la guerra del Vietnam alla televisione, si finisce per non vederla più, essa perde ogni significato.
Io non amo essere diretto. Non mi piacerebbe affatto fare un film sulla guerra del Vietnam, preferirei fare un film sulla seconda guerra mondiale, benché in fondo parlerei del Vietnam. Io amo questo approccio obliquo. Per me è molto meglio di un approccio diretto, ci credo di più
A volte si riesce molto meglio a dire quello che si vuole utilizzando la maniera contraria, piuttosto che andando dritto fino in fondo.
Prendere una forma tradizionale di racconto e trasformarla dall’interno, senza tuttavia tentare di violentarla – è quello che ho sempre fatto.
È terribilmente difficile girare tutto in un luogo chiuso. La trappola in cui si rischia di finire è quella del virtuosismo gratuito, degli effetti facili, delle riprese con obiettivi grandangolari: tutto quello che io ho fatto alla televisione, e non ho alcun desiderio di ricominciare a fare.
Per me, Elia Kazan è il più grande regista americano.
Un punto di vista unico non è un punto di vista. Non ci credo, nel cinema. La realtà è come un’arancia che bisogna girare e rigirare per vederla sotto tutte le angolazioni.
Io non mi attendo che il pubblico o i critici vedano in uno dei miei film la stessa cosa che vedo io.
Per me la musica è essenziale. La musica ha sempre un tema e poi delle variazioni. Così anche i miei film. Spesso parto addirittura dalla musica, prima ancora di avere in mente il film.
Non sono un regista politico, nel senso che in genere non tratto temi politici. Ma vedi, tutto è politico. Io credo che nei miei film la politica sia presente in modo decisivo, ma da un punto di vista allegorico, filosofico.
Io non sono laureato, non ho un’educazione formale classica. Leggo per quanto richiede la mia professione. Diciamo che inciampo nella letteratura…
Nei film quello che mi affascina è la ricerca del carattere umano, della pace, della tranquillità e della priorità dell’esistenza rispetto al resto. È l’unica ragione per cui faccio film.
(Dichiarazioni tratte da interviste varie pubblicate in Renzo Trotta, Sydney Pollack, Moizzi Editore 1977; Franco La Polla, Sydney Pollack, Il Castoro Cinema n. 52, 1978; Franco La Polla (a cura di), Sydney Pollack Cineasta e gentiluomo, Lindau 1997.
Filmografia
Regie televisive
1961: Serie Cain’s Hundred (ep. King at the Mountain)
1962: Serie Target: The Corruptors (ep. The Wrecker)
1962-63: Serie The Alfred Hitchcock Hour (ep. The Black Curtain e Diagnosis: Danger) – 1963: Serie The Defenders (ep. Kill or Be Killer)
1962-63: Serie Ben Casey (ep. The Big Trouble with Charlie, For the Ladybug, One Dozen Roses, Monument to an Aged Hunted, When You See an Evil Man, The Night That Nothing Happened, I’ll Be Alright in The Morning, A Cardinal Act of Mercy: Part 1 and Part 2, Suffer the Little Children, For This Relief, Much Thanks)
1963: Serie Breaking Point (ep. Solo for B-Flat Clarinet)
1964: Serie The Fugitive (ep. Man on a String) – Serie Slattery’s People (ep. Question: What Became of the White Tortilla?)
1964-65: Serie Bob Hope Presents the Chrysler Theatre (ep. Something About Lee Wiley, Two Is the Number, Murder in the First, The Fliers, The Game) – Serie Kraft Suspense Theatre (ep. The Watchman, The Last Clear Chance).
Regie cinematografiche
1965: La vita corre sul filo (The Slender Thread)
1966: Questa ragazza è di tutti (This Property Is Condemned)
1968: Joe Bass l’implacabile (The Scalphunters)
1969: Ardenne ’44: un inferno (Castle Keep) – Non si uccidono così anche il cavalli? (They Shoot Horses, Don’t They?)
1972: Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson)
1973: Come eravamo (The Way We Were)
1975: Yakuza (The Yakuza) – I tre giorni del Condor (Three Days of the Condor)
1977: Un attimo, una vita (Bobby Deerfield)
1979: Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman)
1981: Diritto di cronaca (Absence of Malice)
1982: Tootsie (Tootsie)
1985: La mia Africa (Out of Africa)
1990: Havana (Havana)
1993: Il socio (The Firm)
1995: Sabrina (Sabrina)
1999: Destini incrociati (Random Heart)
2005: L’interprete (The Interpreter) – Frank Gehry: creatore di sogni (Sketches of Frank Gehry)