Al termine di quello che resta forse il suo film più noto, anche se non il migliore (Terra e libertà), Ken Loach cita quattro versi di William Morris che possono essere letti come paradigma della sua visione del mondo, quello cinematografico compreso: «Unisciti nella battaglia / l’unica che l’uomo non può perdere / perché chiunque cada e muoia / sarà l’esempio per quelli che trionferanno». La vita come progetto per il futuro, il conflitto di valori contrapposti, la solidarietà e la consapevolezza che in questa sta l’essenza della natura umana, l’esistenza dei singoli individui quale ottimistica condizione della vittoria finale: autore di un cinema che pone sempre al centro della realtà l’uomo (quindi, anche l’attore che sullo schermo ne diventa il simulacro), Loach coniuga nell’invito all’unità “nella battaglia” la sintesi del sentimento e del pensiero, delle istanze private e di quelle pubbliche, della politica e della storia.
Il suo è da quarantacinque anni un cinema dialettico e mai riconciliato che tende a parlare degli esseri umani come aggregati di energia vitale, atomi indivisibili di una società in continuo divenire, depositari e punto di riferimento di ogni discorso sul vero e sul falso, sul bene e sul male, sul giusto e sull’ingiusto. E questo sia che i suoi film abbiano come tema privilegiato l’inferno famigliare (Family Life) o i sentimenti privati delle giovani generazioni (Poor Cow, La canzone di Carla, Sweet Sixteen), lo spionaggio internazionale (L’agenda nascosta) o la vita quotidiana della classe operaia (Riff-Raff, Piovono pietre e Ladybird Ladybird); siano ambientati nel passato (il brigantaggio settecentesco di Black Jack, l’Irlanda degli anni venti di Il vento che accarezza l’erba o la guerra di Spagna di Terra e libertà) o indaghino nelle contraddizioni del presente (basti citare per tutti Paul, Mick e gli altri); abbiano come sfondo l’Irlanda del Nord (Look and Smiles) o prendano di petto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (In questo mondo libero…); raccontino le esperienze di un cantante dell’est nella non-democrazia occidentale (Fatherland) o l’odissea di un alcolizzato (My name is Joe); elevino a protagonista l’emigrazione dai paesi poveri a quelli ricchi (Bread and Roses e Un bacio appassionato) o indugino sul vivificante e onirico dialogo con un grande calciatore (Il mio amico Eric).
Quello che interessa soprattutto a Ken Loach è sempre la rappresentazione della vita nel suo svolgersi concreto: materialista, egli preferisce dire. E la vita, per lui, è sempre dialettica degli opposti: una battaglia, appunto, in cui si può anche soccombere, ma i cui frutti positivi saranno comunque consegnati alle generazioni future. Vivificato da questa convinzione, il cinema di Loach non ha mai paura né dell’utopia, né del sentimentalismo, neppure della più dichiarata enunciazione ideologica. E da questo atteggiamento nascono film anche discutibili, ma comunque capaci (almeno nei casi migliori) di affrontare la realtà in modo molto diretto, mantenendo la cinepresa sempre addosso ai personaggi, di cui racconta le vicende umane, rifiutando ogni fronzolo estetizzante, senza per questo cadere nella trappola del didascalismo di stile televisivo.
Si prenda ad esempio un film che mi sembra buona espressione del suo cinema migliore: In questo mondo libero. Vi si parla di lavoro precario e di immigrazione, di mano d’opera clandestina e di mancanza di adeguata regolamentazione sociale, del sottile confine che nel mondo capitalistico separa gli sfruttati dagli sfruttatori. Ma al centro c’è un personaggio a tutto tondo (come dicevano una volta della scultura classica gli insegnanti d’arte), Angie, bella trentatreenne che, licenziata in tronco per aver reagito con veemenza ai volgari palpeggiamenti di un superiore, decide di mettere a frutto l’esperienza fatta nel campo dei contratti a termine, aprendo con un’amica un’agenzia clandestina che offre mano d’opera a basso costo a imprenditori poco seri. Nel raccontare le traversie di queste neofite dello spietato mondo capitalista, Loach espone i fatti (il contrasto con i lavoratori, le difficoltà finanziarie, i pestaggi e le minacce), lasciando che da questi nasca direttamente l’ideologia: le buone intenzioni personali e le motivazioni private contano poco di fronte alle spietate regole del profitto, che finiscono sempre per stritolare i rapporti umani e far trionfare la spietata legge della nuova jungla metropolitana. Ed è proprio questa sua oggettività, ancor più che l’ottima ambientazione in un Londra livida e ben poco attraente con i suoi cortili bagnati, le case umide e le roulottes immerse nel fango trasformate in abitazioni d’intere famiglie di disperati, che fanno di It’s a Free World… un film duro e incalzante, molto “loachiano” nel senso positivo dell’aggettivizzazione: cioè, espressione di un cinema “impegnato”, ma mai arrogante o spocchioso, attraverso il quale il regista guarda i suoi protagonisti, e il mondo che ruota loro intorno, con un misto di partecipazione umana e di distacco critico, e su questo arduo confine costruisce stilisticamente film che costringono lo spettatore a riflettere sul presente e sulle sue contraddizioni.
E’ questo primato della dimensione umana che caratterizza al meglio l’opera di Loach, ponendolo al centro di un’idea di cinema “impegnato” che non si rassegna però a sacrificare all’ideologia la propria autonomia linguistica ed espressiva. Non sempre, però; soprattutto quando il suo sguardo passa dal presente al passato, dalla cronaca alla Storia. Anche qui un esempio può concorrere a chiarire il concetto. Terra e libertà è la storia di una sconfitta che costò la vita a più di un milione di esseri umani schierati dalla parte dei “giusti”. Con un’intuizione molto interessante Loach sceglie di raccontarla sul filo della memoria di un ieri rivissuto attraverso una ragazza, che frugando nelle carte del nonno ne scopre un passato sconosciuto. Impostata questa struttura melodrammatica (si veda, ad esempio, l’uso che di tale forma di flashback fa Clint Eastwood in I ponti di Madison County), Loach trova però difficoltà a conciliarla poi con l’esplicito e programmatico assunto ideologico, che si esprime ora in forma ingenuamente sentimentale (il pugno chiuso della nipotina che unisce infine sulla bara del nonno la terra di Spagna, il passato, con quella del cimitero di Liverpool, il presente); ora con modalità solo descrittive (le esperienze e le delusioni esistenziali di chi andò a combattere in Spagna); ora con esteriorità troppo didascalica e ideologica, soprattutto là dove il film indugia sull’insanabile contrasto tra una rivoluzione fondata sulla libera scelta dei suoi partecipanti e le direttive di chi quella rivoluzione pretese di pilotarla dall’alto.
Se In questo mondo libero mette in scena degli esseri umani e attraverso di loro racconta ideologicamente il mondo, Terra e libertà procede in direzione inversa, muovendo dall’ideologia per spiegare i comportamenti degli uomini. E’ sul crinale dall’incontro-scontro tra queste due direzioni opposte che il cinema di Loach riesce a esprimere il meglio di sé, accettando sul campo rischi simili a quelli di un goal o di un passaggio di Eric Cantona (per citare l’intuizione vincente del suo ultimo film giunto in Italia). Mentre quando la programmazione strategica sul campo diventa troppo stringente e l’ideologia prende il sopravvento, accade che i suoi film diventino schematici e declamatori, proprio perché in fin dei conti abbandonano proprio l’oggettività dello sguardo e la centralità dell’essere umano: vale a dire le coordinate entro le quali, nel corso degli anni, dalla televisione al cinema e viceversa, sono nati tutti i suoi film migliori. E si spera sia nato anche Route Irish, l’ultimo film che Loach ha da poco finito di girare.
(di Aldo Viganò)
Chi è
Ken (Kenneth) Loach nasce il 17 giugno 1936 a Nuneaton, nel Warwickshire, da una famiglia operaia. Il padre fa l’elettricista. Primo della sua famiglia, frequenta l’Università, iscrivendosi alla facoltà di Legge alla St. Peter Hall di Oxford, dove però dimostra d’amare più il teatro che i codici. Diventa presidente della Oxford University Dramatic Society, dove si mette alla prova sia come attore, sia come regista. Dopo due anni di servizio militare come dattilografo nella RAF, alla fine degli anni Cinquanta torna al teatro e nel 1961 è nominato direttore del Northampton Repertory Theatre. Il bisogno di denaro lo spinge verso la televisione, dove inizia a lavorare come regista alla BBC. Qui entra in contatto con alcune persone che saranno fondamentali per la sua professione seguente, tra questi Tony Garnett, con in quale fonderà nel 1968 la casa di produzione Kestrel Films e che sino alla soglia degli anni Ottanta sarà il suo più stretto compagno di avventura anche nel cinema. L’esordio sul grande schermo avviene nel 1967 con Poor Cow, film tratto dall’omonimo romanzo di Nell Dunn. Dopo il successo (soprattutto sul Continente europeo) dei suoi primi film, Loach torna a lavorare alla televisione a partire dagli anni Settanta. Continua comunque a girare anche film per il grande schermo, sino a che, alla soglia degli anni Novanta, tre film “sociali e impegnati” lo impongono definitivamente all’attenzione del pubblico e della critica internazionale: Riff Raff vince il “Felix 1991” come migliore film europeo dell’anno, Piovono pietre ottiene il premio speciale della giuria al Festival di Cannes 1993, Ladybird Ladybird garantisce nel 1994 l’orso d’argento come migliore attrice protagonista a Crissy Rock. Da questo momento la carriera cinematografica di Ken Loach prosegue senza interruzioni con la media di quasi un film all’anno.
LOACH, IL CINEMA E IL MONDO
Fare cinema
* Fare un film significa esporre del materiale sensibile alla luce. La zona di sensibilità che trovo particolarmente interessante è il rapporto tra le persone e il loro ambiente. La famiglia, il lavoro, la classe sociale. Gli elementi drammatici che mi attirano sono la forza di battersi per difendersi, la lotta per dar voce a ciò che di solito è represso e il calore dell’amicizia, della solidarietà.
* I miei film non sono fatti per gente politicamente sofisticata, ma per normali persone che lavorano.
Infanzia e vocazione
* Sono sempre stato un appassionato del teatro, per quello che posso ricordare. Amavo in special modo Shakespeare. Sicuramente non lo capivo molto bene, ma mi piaceva il suo linguaggio. L’altra mia passione era leggere la storia: mi affascinava soprattutto il senso del passato. Trascorrevo il tempo a visitare vecchie chiese, a fotografare monumenti, a collezionare oggetti di ricordo. Tutto ciò costituiva un’intensa fonte di interesse e di divertimento.
Scrittura e film
* La pagina scritta non esiste più quando si guarda un film. Quindi perché mai aderire fedelmente a quella cosa stilizzata e formalizzata che è una sceneggiatura, quando durante le riprese, semplicemente riformulando qualcosa, si può provocare negli attori una reazione che sia assolutamente istintiva e, di fatto, vera?
Forma e semplicità
* Il problema della forma è cruciale. Bisogna pervenire a un tipo di semplicità che sia allo stesso tempo comunicativa. Alla fine del film non si devono sentire le tensioni che hanno condotto a questa semplicità.
* Quando non si ha molto denaro bisogna concentrarsi sull’essenziale. La povertà obbliga al rigore, ad andare al cuore delle cose.
Cinema e impegno
* Un regista deve innanzitutto mostrare i fatti e mettere il dito su ciò che non va.
* Non è vero che la classe operaia non esiste più. Si è trasformata, ma lo sfruttamento prosegue. Se c’è la possibilità di un cambiamento nella società, è da quella parte che può venire.
* Il cinema deve restituire la vita nella sua totalità. Il “politico” è legato all’”umano”. Noi abbiamo intenzione di rivolgerci a un numero sempre crescente di persone: vogliamo semplicemente parlare ai nostri simili in un linguaggio chiaro e cercare, con loro, di prendere maggiore coscienza dei problemi dei nostri giorni.
* Cammini per le città, specie nelle periferie, e ti accorgi che la gente soffre. La conclusione a cui si arriva è che le cose non devono andare in questo modo. C’è un modo migliore di vivere.
* Non si fa la rivoluzione con un film, ma un film può essere una leva per sollevare l’inerzia delle cose e della gente.
Realismo e finzione
* Integrare una storia di finzione in un contesto reale conferisce alla fiction la responsabilità di essere ben documentata, come un articolo di giornale o un saggio letterario. I personaggi che stai filmando nella finzione devono essere credibili quanto le persone che passano per la strada. Gli elementi di finzione che vengono collocati all’interno del film devono essere autentici tanto quanto ogni piccolo frammento di realtà che si riesce ad afferrare.
Tecnica e vita
* Amo la tranquillità di una focale fissa che non faccia sobbalzare il pubblico. Per questo non mi piace utilizzare il grandangolo che distorce la fisionomia degli attori e li trasforma in oggetti. Preferisco non assemblare gli attori nell’inquadratura. Se dai spazio alla gente, conferisci loro dignità. Un obiettivo con focale stretta, che non sia però un teleobiettivo, ti permette semplicemente di essere più discreto.
Ottimismo e futuro
* A breve termine non si può essere ottimisti perché stiamo vivendo in una spirale di declino. Ma a lungo termine credo di essere ottimista, perché vedo che le persone comunque si difendono. La ragione per cui faccio dei film è soprattutto quella di permettere alle persone di esprimere questa loro volontà di resistenza. E’ questo che ci fa sorridere e che ci dà la forza di alzarci la mattina.
Le dichiarazioni di Ken Loach sono tratte da interviste rilasciate nel corso di quarant’anni, e pubblicate su diverse riviste italiane e straniere. Molte di queste dichiarazioni sono già state raccolte nei volumi Luciano De Giusti, Ken Loach, Il Castoro Cinema 1996; G. Fuller (a cura di) Loach secondo Loach, Ubulibri 2000 e Gabriele Rizza, Giovanni Maria Rossi, Chiara Tognolotti (a cura di), Ken Loach – Un cineasta di classe, Aida 2004.
Filmografia
Cinema
1967: Poor Cow (idem)
1969: Kes
1971: Family Life (idem)
1979: Black Jack
1981: Uno sguardo, un sorriso (Look and Smiles)
1986: Fatherland
1990: L’agenda nascosta (Hidden Agenda)
1991: Riff-Raff, meglio perderli che trovarli (Riff-Raff)
1993: Piovono pietre (Raining Stones)
1994: Ladybird Ladybird – Una storia vera (Ladybird Ladybird)
1995: Terra e libertà (Land and Freedom)
1996: La canzone di Carla (Carla’s Song)
1998: My Name is Joe (idem)
2000: Bread and Roses (idem)
2001: Paul, Mick e gli altri (The Navigators)
2002: Sweet Sixteen (idem)
2002: 11 settembre 2001 (ep. di 11’ 09” 01)
2004: Un bacio appassionato (A Fond Kiss)
2005: Tickets (co-regia Kiarostami e Olmi)
2006: Il vento che accarezza l’erba (The Wind That Shakes the Barley)
2007: Happy Ending (ep.di Chacun son Cinèma) – In questo mondo libero (It’s a Free World…)
2009: Il mio amico Eric (Looking for Eric)
2010: Route Irish
Televisione
1964: Catherine – Profit by Their example – A Stright Deal – The Whole Truth – Diary of a Young Man (serie tv – tre episodi)
1965: A Tap on the Shoulder – Wear a Very Big Hat – Three Clear Sunday – Up the Junction – The End of Arthur’s Marriage – The Coming Out Party
1966: Cathy Come Home
1967: In Two Minds
1968: The Golden Vision
1969: The big Flame – In Black and White
1971: Talk About Work – The Rank and File – After a Lifetime
1973: A Misfortune
1975: Days of Hope (4 episodi)
1977: The Price of Coal (2 episodi)
1980: The Gamekeeper – Auditions
1981: A Question of Leadership
1983: The Red and the Blue – Questions of Leadership
1984: Which Side Are You On – !989: Time to Go – The View from the Woodpile
1991: The Arthur Legend
1996: The Flickering Flame
1998: Another City: A Week in the Life of Bath’s Football Club.