di Antonella Pina.
I compari (McCabe & MRS. Miller) del 1971, diretto da Robert Altman, interpretato da Warren Beatty e Julie Christie. Un western anomalo che rivoluziona il genere e perfino i generi, mettendo in discussione i modelli di riferimento dell’eroe e del mito della frontiera.
L’eroe di questa storia è un uomo come tanti, un eroe fasullo. Si dice che abbia ucciso qualcuno dalla notevole reputazione, ma è quasi certo che non sia vero. Possiede due cavalli e tre puttane, fuma grossi sigari e gioca a carte, indossa una bombetta e non uno Stetson.
Altman parla di un vecchio mondo che sta per finire. Non c’è rimpianto: non era un mondo in cui vivere fosse semplice. Ci saranno regole diverse, occorrerà essere scaltri. Il nuovo mondo non sarà un luogo migliore e non c’è molto che si possa fare se non riuscire a sopravvivere.
Aleggia una malinconia diffusa, rassegnata, un’assenza di luce. Neppure le immagini sono nitide, il negativo è stato esposto alla luce prima di essere sviluppato così da creare una patina opaca, come una foto d’altri tempi.
Siamo lontani da L’uomo che uccise Liberty Valance, dall’individuo che si batte in nome della Legge: unica diga contro la barbarie, garanzia di libertà, necessaria per la nascita di una Nazione. Qui siamo oltre. La Legge è già dalla parte del più forte e i più forti impongono le loro scelte. l’individuo, il self made man, viene tollerato quando non è d’intralcio, altrimenti viene assorbito o ucciso dalle grandi Compagnie e dal loro Capitale.
Il futuro che sta arrivando durerà per sempre.
Siamo nel 1901 a Presbyterian Church, nel nord degli Stati Uniti. Un gruppo di uomini richiamati lì dalle miniere di zinco, cercano di costruire la loro chiesa e la loro città. E’ un cantiere di fango, alberi abbattuti, pioggia, vento, neve e uomini soli.
Un giorno arriva John McCabe. Avanza lentamente sotto le intemperie con i suoi due cavalli. Ha una grossa pelliccia, forse d’orso, una bombetta e la faccia schietta di Warren Beatty. In sottofondo le note di The Stranger Song di Leonard Cohen. Il suo primo gesto, entrando in un locale ancora in costruzione, dove ci sono uomini che bevono seduti attorno ai tavoli, è stendere con cura un panno logoro per poter giocare a carte, dopo essersi tolto la pelliccia, sistemato gli abiti e il cappello. McCabe è un uomo che vanta una certa eleganza e ha fiuto per gli affari, sa che dove ci sono uomini soli con un po’ di denaro in tasca si desiderano donne e carte da gioco. L’indomani va nella città più vicina, anche se molto lontana. Compra tre prostitute e torna a Presbyterian Church dove monta tre tende e allestisce un bordello.
Intanto la costruzione della città e della sua chiesa continua e sul campanile viene faticosamente eretta la croce. Gli affari vanno bene, l’allegria si mescola al dramma ma nulla viene sottolineato, tutto scorre.
Un giorno dalla città più vicina arriva Costance, una prostituta che vuole qualcosa di più dalla vita. Ha il volto fiero e bello di Julie Christie, è intelligente e ha coraggio, ha senso per gli affari ma è difficile fare affari se non si è al fianco di un uomo. Propone a McCabe una società: la costruzione di un vero bordello, con vere prostitute, camere comode e un bagno dove lavarsi. Lui deve mettere il denaro e lei penserà a tutto il resto. Sono loro i compari del titolo italiano.
Grazie a Costance la società funziona, i guadagni aumentano sensibilmente. Tra i due c’è un legame più profondo di quello che lega soci in affari. Lei però è inesorabile, sembra incapace di distinguere un uomo da un altro e si concede a McCabe solo dopo il pagamento di 5 dollari, la tariffa standard per i suoi clienti. Non c’è spazio per i sentimenti. Costance sa come vanno le cose del mondo e quindi sa che non ci sarà un lieto fine. L’unica serenità possibile è l’oblio ottenuto con l’oppio.
Un giorno arrivano gli uomini d’affari della Snake River Company, interessata ad acquisire le miniere di zinco, e propongono a McCabe di comprare la sua proprietà. McCabe rifiuta, vuole alzare il prezzo, bleffa, come se si trattasse di una partita a poker. Ma si tratta della vita. Gli uomini d’affari si ritirano e lasciano il tavolo da gioco ai killer.
McCabe è solo un codardo e uno sbruffone con un certo fiuto per gli affari ma è anche l’eroe di questa storia. Uccide i killer nonostante la paura e senza destrezza, ma viene a sua volta ucciso.
La chiesa, che abbiamo visto sullo sfondo per tutta la durata del film, acquista un ruolo centrale. McCabe vi si rifugia con il suo fucile per sfuggire ai killer e poterli uccidere. Ma il prete, ripreso più volte, come per caso, mentre passava rassegnato e silenzioso davanti alle tende delle prostitute, lungo le strade fangose della città, finalmente si ribella e armato di fucile caccia McCabe dalla casa di Dio. Cacciandolo lo espone al fuoco dei killer e lo condanna a morte. Anche il prete viene ucciso e la chiesa va a fuoco. La croce, faticosamente eretta, crolla.
McCabe muore solo, in mezzo alla neve. Costance, che conosceva già il finale, si è rifugiata nella fumeria d’oppio. La porta si apre e la macchina da presa la osserva da distante, distesa, e poi si avvicina: zoom sui suoi occhi, poi sulla pupilla e l’angolo di ripresa cambia. La pupilla non è più vista frontalmente ma di profilo e diventa una sfera, come la sfera terrestre che, indifferente, continua la sua rotazione.
The Annihilation of Fish del 1999 diretto da Charles Burnett e interpretato da Lynn Redgrave/Poinsettia e James Earl Jones/Fish.
Burnett, classe 1944, è il regista di Killer of Sheep del 1978 e Dormire con rabbia (To Sleep with Anger) del 1990. The Annihilation of Fish non è mai uscito in Italia.
Si tratta di una commedia romantica, con un retrogusto amaro ma con un lieto fine. Il tema è quello dell’invecchiamento con tutte le conseguenze drammatiche che l’invecchiare spesso comporta: solitudine, smarrimento, paura.
I due protagonisti hanno problemi psichiatrici.
Lei adora l’opera pucciniana, è ufficialmente fidanzata con Puccini ma, non potendolo sposare, a causa delle infinite difficoltà – difficoltà ovvie per lo spettatore ma non per lei – lo abbandona. Lascia la casa che era stato il loro nido d’amore e si trasferisce a Los Angeles, nella pensione della non più giovane signora Muldroone, persona gentilissima ma, anche lei, con qualche problema di accettazione della realtà.
Lui è ricoverato in una clinica psichiatrica, e sarebbe una persona molto gentile ed equilibrata se non fosse che, di tanto in tanto, affronta terribili combattimenti contro un demone invisibile, Hank, che lo attacca di sorpresa prendendolo alle spalle. Fish vince sempre ma i combattimenti lo stancano molto: assomigliano al wrestling e quindi sono impegnativi. Ha passato molti anni tra le mura rassicuranti della clinica, ma nuove leggi entrate in vigore gli impongono di uscire e affrontare la vita da solo. Anche lui trova rifugio dalla signora Muldroone.
Inizialmente tra i due ospiti c’è una comprensibile diffidenza, ciascuno vede la follia dell’altro. Poi, inevitabilmente, finiscono con il piacersi, con il passare molto tempo insieme riuscendo a riempire il vuoto delle loro vite. Non sarà semplice. Lui continuerà a combattere il proprio demone che diventerà ogni giorno più forte e quindi, stremato, finirà con l’ammalarsi. Lei riprenderà a bere. Alla fine però, anche con l’aiuto della signora Muldroone, partiranno insieme per un luogo lontano, esotico e felice.
Un film divertente, delicato, politicamente scorretto e rassicurante.
Cronos di Guillermo del Toro del 1992, interpretato da Federico Luppi/Jesús Gris e Ron Perlman/Angel.
Opera prima del regista di The Shape of Water, è una commedia horror sui vampiri e il desiderio, tutto umano, di vivere eternamente. Del Toro mette alla prova una famiglia imperfetta: nonno, nonna e nipotina di circa dieci anni, orfana di entrambi i genitori. Una famiglia triste, rassegnata ma unita. Il nonno, Jesús, e la nipotina, Aurora, sono inseparabili. Lei non parla ma osserva, ha coraggio, comprende tutto ciò che le accade attorno, anche cose inquietanti di cui la gente comune avrebbe paura, e adora il nonno. Potrebbe essere Elisa Esposito da bambina, poi diventata grande in The Shape of Water, anche lei va oltre le apparenze e si prende cura di una creatura dall’aspetto inquietante.
Jesús è un uomo mite, ha un negozio d’antiquariato e adora la nipotina. Un giorno trova un oggetto strano all’interno di una statua raffigurante un arcangelo. Ha la forma di uno scarabeo che a contatto con la pelle umana estrae le sue zampe ad uncino e le conficca nella carne.
Questa sorta di morso è doloroso ma, superato il primo momento, con il trascorrere delle ore subentra una piacevole sensazione di benessere e vigore. Il nonno dopo essere stato morso, del tutto casualmente e con grande sgomento suo e della nipote, prende nuovo vigore ma sviluppa una dipendenza dall’oggetto misterioso. Non sa cosa sia e a cosa serva realmente ma non può più separarsene. Aurora osserva inquieta e affascinata.
Qualcuno però, un uomo molto ricco e malato, Dieter de la Guardia, sa esattamente cosa sia quello strano oggetto e lo sta cercando disperatamente da molto tempo. Si tratta di un meccanismo costruito dall’alchimista Fulcanelli nel ‘500, ed ha lo straordinario potere di dare la vita eterna, trasformando gli uomini in vampiri. Ad agire per conto di Dieter de la Guardia è il nipote Angel che, inevitabilmente, si imbatte in Jesús e Aurora.
Si scatena una guerra all’ultima goccia di sangue con situazioni a volte inquietanti, a volte esilaranti. Più esilaranti che inquietanti. Il momento in cui Jesús scopre la sua attrazione per il sangue è decisamente divertente. Si trova nei bagni di un ristorante insieme a un uomo che dopo aver perso gocce di sangue sul lavabo e sul pavimento, esce senza pulire. Jesús si avvicina affascinato e con il dito cerca di radunare le poche gocce per poterle leccare. Qualcuno entra all’improvviso e lamentandosi della presenza del sangue lo lava via con l’acqua. Lui se ne rammarica ma poi si accorge del sangue sul pavimento e allora si sdraia a terra e con voluttà comincia a leccarlo.
Jesús, grazie all’aiuto di Aurora, ha la meglio sui de la Guardia, anche se deve morire e poi risorgere, ma il suo bisogno di sangue aumenta. Un giorno, per un attimo, guarda Aurora con occhi nuovi: il sangue di una bambina avrebbe su di lui effetti straordinari. Basta quel momento di esitazione per fargli percepire l’abisso in cui sarebbe precipitato. L’amore per Aurora trionfa, il bene vince sul male. Jesús distrugge l’oggetto dal terribile potere e rinuncia alla vita eterna.
Cronos affronta il mondo dei vampiri con uno stile originale, divertente e grottesco. Venne presentato a Cannes alla Settimana della Critica e vinse.
I disperati di Sándor (Szegènylegènyek) del 1966 di Miklós Jancsó.
Con uno stile rigoroso ed essenziale ma in qualche modo anche altisonante, un Cinemascope in bianco e nero, il regista ungherese mette in scena una pagina della Storia del suo paese.
Siamo nel 1860. L’Ungheria, dopo la sconfitta della rivoluzione del ‘48, è ancora sotto la dominazione austriaca, ma i seguaci di Sándor Rózsa – un Robin Wood ungherese, prima brigante poi eroe della rivoluzione, alla quale partecipò con una sua compagnia di combattenti a cavallo – continuano la loro guerriglia contro gli Asburgo.
Il governo austro-ungarico, determinato a eliminare ogni forma di resistenza, cattura decine di allevatori e contadini e li segrega in una fortezza sottoponendoli a torture fisiche e psicologiche affinché confessino la loro appartenenza al gruppo dei ribelli o indichino qualcuno che ne faccia parte. La fortezza si trova nella puszta, la prateria ungherese. Una fortezza nel mezzo del nulla.
Dal nulla arrivano i soldati. Nel nulla vengono liberati alcuni prigionieri a cui poi viene sparato alle spalle. Dal nulla arrivano donne con ceste di pane per i detenuti che depositano a terra, e nel nulla vengono ricacciate inseguite da soldati a cavallo. Una di queste, una giovane ragazza bionda, indicata da qualcuno come possibile collaboratrice dei ribelli, viene denudata e costretta a passare e ripassare tra due file di soldati che la fustigano fino a farla cadere esanime. Gli uomini vengono portati sul muro della fortezza e costretti a guardare. Alcuni di loro si gettano nel vuoto.
Ci sono impiccati, persone incappucciate costrette a girare in cerchio come muli che muovono la macina, ma non c’è nessuna macina, solo un cerchio di corda e uomini senza volto.
Nulla di tutto questo viene sottolineato. Non c’è musica, non c’è sangue, non ci sono grida, solo rumori di sottofondo. Ci sono molti piani sequenza e situazioni claustrofobiche, sia nelle anguste celle dentro la fortezza che nella puszta sconfinata. L’Umanità è assente, c’è solo solitudine e una terra desolata. La situazione è molto concreta ma l’atmosfera è surreale.
I carcerieri creano un ambiente psicologicamente ostile. Ci sono spie e delatori, nessuno può fidarsi di nessuno. Si promette la libertà a chi denuncia un prigioniero colpevole di molti delitti, più colpevole del delatore. Se denunci qualcuno che ha ucciso sei persone mentre tu ne hai uccise cinque, allora sarai perdonato. Ma nessuno verrà graziato.
Nonostante tutto i carcerieri non ottengono le informazioni sperate. Dovranno ricorre ad un subdolo stratagemma per riuscire a isolare i seguaci di Sándor e a fucilarli.
In realtà nel 1966, dieci anni dopo la primavera di Budapest, Jancsó si è servito di un film in costume e di una storia di cento anni prima per parlare dell’Ungheria del suo presente, per parlare di ogni forma di repressione.