di Massimo Lechi.
Ospite d’onore della decima edizione di Qumra (1-6 marzo 2024), il grande evento industry organizzato dal DFI – Doha Film Institute nella capitale qatariota, Claire Denis si è concessa con generosità agli spettatori locali e alla stampa straniera nel corso di una lunga e intensa masterclass condotta dal critico e accademico americano Richard Peña, tra aneddoti, riflessioni sullo stato dell’arte del cinema internazionale e anticipazioni sul suo nuovo progetto intitolato The Fence.
Un’occasione indubbiamente preziosa per ricostruire il percorso della cineasta francese, iniziato all’IDHEC di Parigi, l’attuale La Fémis, proseguito sui set di Jacques Rivette, Costa-Gavras e soprattutto Wim Wenders (molto stretta la loro collaborazione negli anni d’oro di Paris, Texas e Il cielo sopra Berlino), e sviluppatosi poi in una carriera registica personalissima, in una filmografia ricca e controversa, nella quale hanno saputo coesistere tanto le memorie dell’infanzia in un’Africa in lotta per l’indipendenza dal colonialismo europeo (Chocolat del 1988 e White Material del 2009) quanto l’interesse per i corpi e per la sensualità alla base di ogni rapporto di attrazione-repulsione tra individui (Beau Travail del 1999 e Stars at Noon – Stelle a mezzogiorno del 2022) e la tendenza alla rielaborazione idiosincratica dei generi cinematografici (l’horror erotico Cannibal Love – Mangiata viva del 2001 e lo sci-fi movie filosofico High Life del 2018).
Autrice di culto, riconosciuta figura di riferimento per generazioni di registe francofone e non solo, Claire Denis ha rilasciato la breve intervista che segue al termine dell’incontro pubblico svoltosi nello spettacolare Museo d’arte islamica di Doha.
Nella masterclass lei ha accennato alla sua insicurezza. Lo trovo un concetto interessante nel contesto del processo creativo.
Nella realtà ci sono due tipi di insicurezza: quella fisica, che si accompagna alla paura di essere uccisi, di morire di freddo o di fame, e quella di sé, del proprio lavoro. Non sono assolutamente la stessa cosa.
La seconda è l’insicurezza dell’artista?
No, è piuttosto l’insicurezza dell’ego. E delle proprie decisioni – quando giri devi decidere ogni singola cosa, tutto il tempo. È quest’insicurezza generale che io ho, e che fa sì che io viva, certo, in uno stato di incertezza artistica, che però non è paragonabile alla paura di essere abbattuta da una mitragliatrice… Nella vita reale l’insicurezza è una cosa un po’ stupida, non tanto seria, mentre invece su un set cinematografico ha un costo economico, perché in un film ci sono un budget, una troupe e degli attori. L’insicurezza di un regista può avere conseguenze gravi. Ma allo stesso tempo penso possa essere un modo per trovare un percorso nella regia: può darmi un po’ di ossigeno per respirare e anche una specie di piacere infantile.
Un percorso che porta alla verità?
Nella vita posso mentire, ma quando giro un film è come se fossi una parte di un motore, una parte meccanica che non può mentire. Se inizio a mentire, a poco a poco perdo il film, e la mia sincerità rispetto ad esso. Già ai tempi in cui facevo l’assistente alla regia vedevo questo momento terribile in cui si deve dire la verità. Siamo obbligati a dire la verità. Tutto ciò rientra nell’insicurezza di cui parlavo.
Un aspetto del suo cinema affrontato con particolare cura nella masterclass è stato invece quello della violenza. Credo tuttavia che ci siano altri due termini molto importanti che definiscono la sua opera: furore e carnalità.
Parto dal secondo. La carnalità – la carne – per me è un obbligo di sincerità. Io, per esempio, ho molta paura nelle scene sensuali: non tanto di girarle male, quanto di chiedere agli attori e alle attrici di fare qualcosa che io stessa avrei timore di fare. Se lo chiedo a loro, devo esserne capace anch’io, in qualche modo. Oggi si parla molto dei coordinatori d’intimità sui set: se la legge mi obbligherà a utilizzarli, lo farò, però trovo che questo creerà una distanza, mi farà restare sullo sfondo… La mia paura mi aiuta nelle scene di sesso.
E il furore?
È una parola che mi piace molto. Trovo che il furore sia molto meglio della violenza. Il furore non possiamo controllarlo, mentre la violenza possiamo tenerla a bada. Il furore è qualcosa di imprevisto, qualcosa che sta sotto la superficie di una scena. Quando scrivo una sceneggiatura il furore resta sempre un po’ nascosto, ma so che verrà fuori al momento delle riprese. Anche per questo motivo non amo fare troppi take: la ripetizione può essere molto stancante, un’esperienza troppo dura per me, per gli attori e per la troupe. Se invece dimostro di temere questo furore, anche loro possono sentirlo e ciò può portare a un’esplosione simile a quella di un vulcano.
Cosa pensa dell’attuale grande successo – dell’esplosione, verrebbe di nuovo da dire – delle registe francesi? Il suo paese, da questo punto di vista, è sempre stato piuttosto all’avanguardia.
Sì, se la mettiamo in questi termini, in Francia, in passato, abbiamo avuto cineaste che hanno spinto le ragazze a frequentare le scuole di cinema… Bah, mi ricordo che quando ho iniziato io non mi interessavano il montaggio o fare la segretaria di edizione: volevo occuparmi di fotografia e di regia, e per questo la gente era preoccupata per me, pensava che sarebbe stato difficile per una donna. Oggi invece una cosa del genere non la pensa più nessuno. Inoltre, le registe francesi che stanno vincendo così tanti premi sono molto diverse tra loro. Non è mai lo stesso film.