Il Tarzan della Foresta Nera: la storia di Lex Barker

di Teresio Spalla.
Kirk Douglas raccontava spesso come, dopo un’infanzia tanto povera quanto infelice e un doloroso periodo adolescenziale, approdò a Hollywood,fece le sue prime esperienze, cominciò ad affermarsi gradualmente ma non ancora abbastanza per sentirsi inserito completamente nel mondo dello Spettacolo statunitense.

Arrivò comunque il momento in cui, già abbastanza conosciuto ed inserito, affascinante per il suo aspetto un po’ brutale ma anche rigoroso in ruoli studiati con grande applicazione, già legato a diverse dive con spasso giovanile, arrivò ad un club esclusivo, di quelli che allora, negli anni Quaranta, non esistevano solo ad Hollywood.

Ma non poté fare il suo ingresso che per pochi metri. Ad un tratto si presentò a lui un attore altissimo e imponente, biondo e bello come l’americano perfetto e wasp.

Kirk aveva fatto la guerra e riteneva anche che i suoi meriti bellici fossero un ineluttabile garanzia per accedere al luogo anche lui, un ex stradino ebreo di origine bielorussa.

Ma il suo anfitrione, che portava in bella vista due luccicanti decorazioni, non fece troppe domande. Lo prese per il braccio e, facendogli sapere che gli ebrei non erano graditi in quel circolo, lo accompagnò al cancello.

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Il tipo alla moda e senza scrupoli razzisti era Lex Barker, nato nel 1919 in ben altri quartieri, conosciuto come l’erede di una famiglia molto benestante e con un passato di prestigio politico e finanziario di Port Chester, diplomato alla Phillips Exterer Academy, infallibile giocatore di tennis e polo, il quale, senza troppi problemi, aveva lasciato l’università di Princeton per darsi ad una breve e poco felice esperienza teatrale ma certo di poter proseguire come attore di cinema.

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La situazione come quella in cui incorse Kirk Douglas viene riportata in un film una volta molto noto per chi fosse appassionato di cinema classico : “Barriera invisibile” (20CFox©1947) dove un giornalista (Gregory Peck) si finge ebreo per scoprire come, subito dopo la guerra e l’Olocausto, fosse ancora ben presente l’antisemitismo in tanti ambienti americani compresi hotel e club aperti ai soli yankee di razza bianca e religione protestante.

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Chissà se Lex Barker lo avrà mai visto “Barriera invisibile” in quel periodo in cui era impegnato come attore cinematografico di terzo e secondo piano, un po’ ligneo e di non brillante dizione, ma così aitante e di fisico atletico, da non sfuggire, come voleva, al cinema dove, tra il ’47 e il 48, recitò, per quanto in piccolissime e piccole parti, in ben otto film con la Rko.

Aveva tentato di passare, senza disdire il contratto, con la Paramount ma, dopo ruoli quasi invisibili, continuò il suo itinerario nella società che era detta “La più piccola delle grandi” tra le produzioni dominanti benché il termine sarebbe andato più propriamente alla meno elegante Republic.

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Il primo film dove Lex Barker appare con una certa specificità è “Gli Avvoltoi” (’48), ultima delle sue prestazioni prima della svolta che lo aspettava, una produzione western dove, secondo la tradizione del tempo, venivano radunati, senza rispettare ne la geografia e la cronologia, i personaggi più famosi del West.

Qui è uno dei famigerati fratelli Dalton ma, come tutti gli altri fuorilegge che il mito ha radunato in questa buona pellicola, è sopraffatto dal duello tra il veterano ma significativo Randolph Scott e un giovane Robert Ryan (anche lui sotto contratto con la ditta allora non ancora in mano ad Howard Hughes che arrivò l’anno dopo) il quale, in chiave nevrotica e crudelmente animalesca, avrebbe già meritato un Oscar come Sundance Kid.

Da Scott e Ryan, molto diversi e di generazioni diverse ma che seppero essere complementari anche in altre occasioni ed oggi sono ancora assai rappresentativi di quel periodo del cinema americano, Lex Barker non seppe ricavare nulla.

Il suo ruolo era quello del protagonista dei party esclusivi, della frequentazione dell’alta società.

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Nel frattempo il personaggio di Tarzan, affidato dal ’32 all’ex campione di nuoto e pallanuoto Johnny Weissmuller, è stato rilevato dal produttore indipendente Sol Lesser che si accorda, per il finanziamento e la distribuzione con Howard Hughes, il leggendario miliardario egocentrico e rievocato in tante forme contradditorie, il quale ha comprato la Rko.

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Johnny Weissmuller fu il beniamino dei bambini e dei ragazzi, anche in Italia, fino agli anni Novanta del Novecento – quando una rassegna dei suoi film sulla nascente tv satellitare fece contenti i suoi anziani fans che ancora trasmettevano qualcosa ai figli e ai nipoti – e, nonostante i successori a colori, rimase un autentico mito tra coloro che hanno ricoperto il ruolo di re della Giungla creato da Edgar Rice Burroughs.

Aveva allora 44 anni, ed era abbastanza annoiato dal ruolo e in attesa di nuove occasioni.

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Alla ricerca di un Tarzan rigorosamente occidentale nell’Africa ricostruita ad Hollywood dove sta per arrivare la selezione maccartista, Hughes sceglie, tra i suoi attori più in assonanza con la propria mentalità, proprio Lex Barker  che sarà il decimo Tarzan dello schermo ma, in pratica, il secondo e più noto degli anni del sonoro sino alla serie tv con Ron Ely (Nbc@1966-68).

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Dal 1949 parte così la nuova serie cinematografica con Tarzan interpretato da Lex Barker.

Nel primo film – “La fontana magica di Tarzan” – gli viene affiancata, nel ruolo di Jane, Brenda Joyce che era stata l’ultima compagna della famiglia arborea di Weissmuller.

Anche il regista è lo stesso Lee Sholem, praticante della serialità che poi passerà alla televisione.

Seguono “Tarzan e le schiave” (’50, sempre di Sholem) con Vanessa Brown e Denise Darcel; “Tarzan sul sentiero di guerra” (’51, regia di Byron Haskin) con Virginia Huston e una incantevole Dorothy Dandridge; “La furia di Tarzan” (’52, regia di Cy Endfield che lo stesso Barker contribuì a mandare sotto processo per inesistenti attività comuniste e dovrà ricostruirsi una carriera in Gran Bretagna) con Dorothy Hart; “Tarzan e i cacciatori d’avorio” (’53, di Kurt Neumann) con Joyce MacKenzie e Monique Van Vooren.

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Dopo questi nove film, poiché Lex Barker è notoriamente in cerca di un’affermazione meno corriva, Lesser propone a Hughes di cambiarlo con Gordon Scott, ginnasta e culturista di fama, che, dal ’55, diventa Tarzan e in seguito sarà il primo ad interpretarlo a colori in formato più moderno e scenari naturali.

Anche Scott, interprete di sei film tarzaniani, andrà, come vedremo anche Barker, in cerca di fortuna in Italia dove reciterà in diciotto film dal ’61 al ’67 e, dopo una serie di pellicole peplum e fantastiche, sarà pure uno Zorro scalcagnato, un agente segreto in imitazione di James Bond, ed anche tra i primi interpreti del western europeo ma, come vedremo, ancora modellato su quello americano pur con numerose varianti.

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Tornando al  Tarzan di Barker, è quello che conobbero i bambini degli anni Cinquanta, anche nei Sessanta e primi Settanta per via delle numerose repliche in tv dove frequentemente i film, insieme a quelli con Weissmuller, erano proposti in due parti alla “Tv dei Ragazzi” .

Ma questo Tarzan non possiede, anche per pesanti delimitazioni di budget, la stessa forza espressiva dell’eroe della giungla radicato, col sonoro, dal suo predecessore Weissmuller, il quale  aveva davvero impersonato, pur non essendo certo un grande attore, la forza fisica e il ruolo di “uomo-scimmia” in chiave liberatoria e selvaggia proprio quando la tecnologia moderna cambiava decisamente lo spirito moderno del Novecento.

La forza espressiva di Tarzan doveva essere questa, fisica e simbolica, per altro a ciò non era affatto indifferente l’attività di Weissmuller come autentico eroe dello sport.

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Il Tarzan di Lex Barker invece , ancora in un bianco e nero ben poco suggestivo, è un personaggio meno stimolante anche se, come personalità, più vicino ad un incerto realismo psicologico.

I suoi film, girati senza gli sfondi autentici africani ancora credibili negli anni Trenta, si svolgono in una giunga molto meno pericolosa, più confortevole per lui e più accogliente per amici e nemici che vi capitavano.

Ne le sue varie Jane (tutte uscite dall’album di modelle da divano momentaneamente preferite da Hughes) possedevano quel fascino attraente perché semplice e ai limiti del materno di Maureen O’Sullivan, attrice la quale (dopo essere stata con Weissmuller la compagna di Tarzan più celebre)  poi continuò una bella carriera anche sul palcoscenico fino ad età matura.

E le storie, già destinate alla tv per il livello produttivo, lasciavano già il loro spazio scenico originario, con temperati e semplicistici accenni agli aspetti vorticosi della vita nella foresta equatoriale, per gli  spettacoli pomeridiani nelle sale a doppio programma.

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Però, nel frattempo, Barker, grazie ai suoi rapporti nell’alta società, si era creato un nome che, come play boy, supera quello di attore.

E, nel ’52, ancora legato contrattualmente a Tarzan, aveva interpretato un film – “Lo sparviero di Fort Niagara” – che la recente uscita in dvd ha mostrato, pur nella sua limitatissima forma produttiva, come dal Tarzan protettore della Giungla e i suoi popoli, potesse passare ad un ruolo più americano eppure consimile verso gli indiani d’America al posto dei popoli africani.

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Realizzato da una piccola casa indipendente, il film riassume, con molte libertà storiche dovute anche all’esiguità della durata (72’) una storia del western coloniale, di quelle che il cinema americano ha toccato saltuariamente poiché coinvolgono l’epoca in cui il rapporto tra nativi e yankee, prima e dopo la guerra tra Francia e Inghilterra, non era ancora rivolto al genocidio ma piuttosto al coinvolgimento dei pellerossa nel conflitto tra le due parti sebbene, proprio in quel lungo periodo, furono commessi i più tremendi massacri, quelli oggi riassunti nel termine “Shoah indiana”, un termine niente affatto azzardato.

Non a caso il titolo originale “Battles of Chief Pontiac” si rifà ad un evento storico citando il celebre capo della nazione Odawa che ebbe un ruolo cruciale nella guerriglia – estesa tra il 1762 e il 1765 – combattendo con i francesi e affermandosi in due battaglie cruciali, quella di Fort Detroit e di Fort Niagara.

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“Lo sparviero di Fort Niagara” è però nel film il perfido comandante tedesco che, chiamato in America dai britannici per insegnare l’ “arte delle guerra” alle truppe asserragliate nel forte, utilizza una donazione di coperte prelevate da morti di vaiolo per farne un dono a Pontiac il quale, vedendo il suo popolo sull’orlo dello sterminio, riprende la guerra contro le giubbe rosse.

Interviene però lo scout, e “uomo della foresta”, Kent McIntire (Lex Barker) che alfine riesce a creare uno spirito di pace dopo gli scontri e la giusta punizione del graduato straniero.

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In realtà le vicende belliche accennate nel film durarono più di un secolo e finirono con l’implicare, insieme a Francia e Gran Bretagna, gli inglesi residenti nelle prime colonie atlantiche i quali, nella guerra contro gli indiani che parteggiavano per i francesi, impararono il genocidio nei confronti di tutti i nativi non appena ottennero l’indipendenza.

E le epidemie di peste, scorbuto e vaiolo, se furono certamente un’arma usata contro gli indiani da tutte le fazioni, divennero sistemi di eliminazione di massa soprattutto per gli americani postcolonizzati.

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Ma il film, nella sua modestia, contiene due elementi, probabilmente indifferenti al grosso pubblico statunitense del suo tempo, che vale la pena sottolineare in questo contesto.

Pontiac, il capo che secoli dopo darà il nome ad un tipo di automobili, è quasi sempre – per esempio in “America” di Griffith (1914) e ne “L’ultimo dei Mohicani” di Maurice Tourneur (1920) – rappresentato come un mostro assetato di sangue, il simbolo orrendo dei “selvaggi” nativi che ostacola con brutalità assoluta l’insediamento dei coloni europei in genere e scoto-irlandesi in particolare.

Invece qui – dov’è interpretato da Lon Chaney come un uomo maturo e dimesso, di taglia extralarge – Pontiac è pacifista, poco incline alla guerra per saggezza e intelligenza.

E, in questo senso, Il personaggio affidato a Lex Barker ribalta la tradizione dei personaggi classici di Fenimore Cooper (l’autore de “L’ultimo dei Mohicani” il cui razzismo profondo è stato ammorbidito negli anni dal cinema sonoro fino all’ultima versione, del tutto immune da questo particolare, del 1992) e si schiera apertamente al fianco di Pontiac.

Insomma, questo Kent McIntire è un Tarzan, tradizionalmente vestito con giubba di pelle di daino, che lotta per un West tranquillo e pacificato, aperto ai cacciatori e agli uomini delle foreste e delle praterie, poco vicino alle autentiche e celebri guide delle grandi invasioni militari e sociali del XIX secolo.

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Il personaggio dell’avventuriero di buoni propositi si riproporrà a Baker sotto diverse forme dal ’54.

Intanto partecipa, in un ruolo minore, a “Per la vecchia bandiera” (Wb©’53) – il suo primo film a colori dopo l’ultimo della serie con Tarzan uscito dopo “Lo sparviero di Fort Niagara” – in cui interpreta un viscido ufficiale che ci prova nientemeno con la futura sposa del simbolico e roccioso Randolph Scott da cui si becca un fenomenale cazzotto.

Poi, l’anno dopo, è assunto alla Universal, sempre in cerca di attori aitanti per western di serie b – per cui è protagonista di opere di poco conto : “Sangue e metallo giallo” (’54) ; “Duello a Bitter Ridge” (’55) e, ultimo, “Duello sul Mississippi” (’55) storia di pirati fluviali nella Louisiana del 1820.

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Ma i film che attirano l’interesse  critico-storico verso questo attore – che i più giudicano “legnoso”, altri “inespressivo”, ed è sempre più noto per le avventure sentimentali (e sessuali) con dive di fama – sono i due successivi.

Si tratta ancora di due western i quali spingono qui a tralasciare  l’interesse per i suoi unici noir-thriller hollywoodiani  – “Il prezzo della paura” (’56) e “Fbi squadra omicidi” (’57) che pur sono opere stuzzicanti nel loro genere.

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Detto questo,  l’affermazione effettiva di Lex Barker come interprete western avviene con “Tamburi di guerra” (’57), produzione indipendente della Bel Air gestita da Howard W.Koch, un autore e produttore anticonformista,  e “Il riscatto degli indiani” (20thCFox, dello stesso anno) tratto da “Il cacciatore di cervi” il romanzo di J.F.Cooper dove è lo stesso protagonista de “L’ultimo dei Mohicani”, praticamente identico ma con nome diverso.

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Il primo è la storia, ampiamente romanzata, di Mangas  Coloradas (1794-1863),  uno dei più nobili e meno oggi conosciuti condottieri apache (della nazione Mimbreno)  il quale combatté con gli americani nella guerra contro il Messico (1846-48) che portò all’invasione e quindi all’assimilazione dei territori che oggi corrispondono ad Arizona, New Mexico, Texas occidentale su una base politica aggressiva e già imperialista,  gestita dalla massoneria di destra, razzista e “antipapista” (anticattolica), allora a capo di una diffusa e potentissima rete politico-militare che certo non aveva alcuna simpatia per i nativi.

In seguito questo capo – il cui vero nome era Lachoy-kokunnost e il cui nome spagnolo si collega alle leggende più efferate tipo quella di “maniche intinte nel sangue” ed altre – finito il suo utilizzo in guerra, divenne ovviamente un problema per i bianchi del sud-ovest e, attirato per un accordo di pace – fu ucciso a fort McLane dalle truppe del generale Joseph West il quale gli fece tagliare la testa per inviarla ad un istituto di frenologia.

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Il massacro a tradimento di Mangas e degli uomini che lo accompagnavano è considerato oggi, dagli storici più aggiornati, come l’inizio di quella guerra – che forse, in Italia di questi tempi, conoscono solo i lettori degli albi a fumetti con Tex  – tra gli Apaches di tutte le nazioni, coinvolgendo capi illustri come Cochise, Victoro, Juh e Geronimo con la cui resa, nel settembre 1886, segna simbolicamente la fine delle guerre indiane.

In realtà è stato appurato che l’ultimo apache ad arrendersi fu Mangus, uno dei figli di Mangas Coloradas, che, alla fame, accettò il trasferimento,  nella riserva-prigione in Florida, il 19 ottobre.

Ad esso è in parte ispirato il protagonista Massai – interpretato da Burt Lancaster – di un western tra i più problematici sul problema dei nativi negli anni Cinquanta : “L’ultimo apache” -(Hecht/Lancaster/Ua©’54) di Robert Aldrich –  una delle opere più celebri che, negli anni Cinquanta-Sessanta, vedono i nativi americani con un tollerante esame creativo.

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“Tamburi di guerra” , pur nel contesto di un budget molto meno ricco, evidentemente risente dell’influsso del film di Aldrich e ci presenta Lex Barker in quella che giudichiamo la sua migliore interpretazione sebbene il richiamo alla bellezza statuaria dell’attore sia anche qui, dati i tempi, una componente quasi imbarazzante.

Si immagina che un giovane Mangas, prima dello scoppio della Guerra Civile (il che comporta notevoli errori scenografico-cronologici) viva in pace dopo aver sconfitto i messicani (i quali, nella realtà storica, egli osteggiava perché, fin dai suoi primi anni di vita, avevano fatto ai Mimbreno una feroce e infinita guerra sulle terre di confine) e si limiti a trattare con Fargo,  pacifico e leale commerciante bianco (un simpatico e pluralista Ben Johnson).

Derubato di una mandria di cavalli da alcuni sgherri,  Mangas li uccide e sottrae loro Riva (Joan Taylor), una prigioniera messicana che solo la censura degli anni Cinquanta non rivela come prostituta al loro servizio.

Durante il viaggio di ritorno Fargo si innamora della donna ma lei preferisce Mangas e lo aiuterà nella guerra con i soldati scoppiata dopo un’infame provocazione da alcuni cercatori d’oro mentre all’est è cominciata la secessione.

Il destino del capo indiano e della sua sposa (incinta) sarà sempre la guerra ?

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“Tamburi di guerra” s’inserisce in pieno nel filone western che guarda ai nativi con paternalistica suggestione e rifugge, anche nelle sottigliezze, il clima di perenne avversione tra le razze.

Girato quasi tutto in esterni, il film – diretto da Reginald Le Borg, un regista competente di serie B anche lui alla sua prova migliore nel genere – ha il merito di presentare Mangas non solo con lo stesso criterio con cui appaiono gli altri eroi indiani del periodo interpretati da star di Hollywood – ma di mostrare una visione dell’Ovest come terra vergine che, finché tale rimarrà, non vedrà conflitti.

Il criterio pacifista e longanime del contesto imparenta questo Mangas Coloradas completamente inventato ai cacciatori delle grandi foreste che immaginano il west come una bella donna la quale, violata dalla civiltà prima ancora che dall’uomo bianco di per se stesso, perderà con la scomparsa dei pellerossa appunto la verginità mite ed idilliaca.

Se gli storici moderni hanno ormai definito che questa verginità fu perduta, anche nell’America del Nord, non appena Colombo mise piede nel continente, ciò non priva di indulgenza chi narra di un tempo in cui – anche grazie a questo film – gli indiani d’America erano diventati nostri amici al cinema, in televisione (la serie “Penna di Falco”  – Cbs©1955-56 – trasmessa dalla “Tv dei Ragazzi” nei primi anni Sessanta), nel fumetto, e nei libri didascalici ma avvincenti di Piero Pieroni.

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Lo stesso discorso vale per “Il riscatto degli indiani” (ricordiamo che i titoli italiani, inventati per attirare il pubblico degli appassionati, non corrispondono quasi mai agli originali) che, ambientato esclusivamente in un piccolo lago tra le montagne e nell’interno della capanna posta a sua custodia, vede il “cacciatore di cervi” (Baker) cercare prima la difesa dagli Uroni e poi la pace con essi quando scopre che sono i bianchi ad avere truffato e fatto raccolta di scalpi pellerossa.

Al film non nuoce l’apparizione di due attrici di serie A. La dolce Cathy O’Donnell dalla “bellezza calma” e Rita Moreno, futura leader delle attrici ispano-americane.

Il discorso del copione, nella sua pur evidente limitazione di impegno economico e quindi scenografico ma non nella fotografia del mitico Karl Struss dovuta al proverbiale impegno della Fox anche nei prodotti di serie, è gradito anche per questa presenza femminile.

Il regista – Kurt Neumann – figlio di immigrati alsaziani specializzato inizialmente in produzioni di lingua tedesca  – riprendeva qui un’altra versione del ‘43, in bn, anch’essa da vedere se si pensa al periodo in cui fu condotta in porto.

Ma “Il riscatto degli indiani”  è considerata migliore  e più acida con il razzismo yankee.

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Dopo questo film e poi l’inedito da noi “The girl in the Kremlin” – un film di propaganda antisovietica (Universal©1957) con Zza Zza Gabor –  Barker decide, nell’estate del ’57, di partire per l’Italia.

In una delle sue rare interviste afferma che si tratterà di una breve pausa dai suoi impegni a Hollywood ma, in realtà, vista la situazione in cui era caduta la sua vita privata, ha già deciso di rimanere qualche anno nel nostro Paese.

Dopo due matrimoni di breve durata, tra cui il brevissimo (un anno circa tra il ’51 e il ‘52) con la conturbante diva Arlene Dahl, si era appena separato da Lana Turner, star all’apice della serie A, con la quale era formalmente unito dal ’53 e, da pochi mesi, sfuggiva all’accusa di violenza rivoltagli dalla figlia dodicenne di lei che, in seguito, sarà coinvolta anche nel rapporto tra l’attrice e il gangster Johnny Spompanato.

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A questo punto è necessario fare un passo indietro per ricordare come Lex Barker, nel ’54, era già arrivato a Cinecittà in fuga dai giornali scandalistici e dalle prime inchieste giudiziarie.

In quell’anno – grazie all’amicizia con l’ambasciatrice Claire Booth Luce con la quale aveva stabilito un legame quale “testimone amichevole” durante la “caccia alle streghe” – era stato accolto in pompa magna per poi finire in  un dittico di film avventurosi liberamente tratti dai romanzi di Salgari.

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Si tratta di “I misteri della jungla nera” e “La vendetta dei Thugs” – che lo vedono, nel ruolo di Tremal-Naik, al fianco di Fiorella Mari e la solita legione di caratteristi cinematografici ben lontani da quelli di scuola teatrale che il pubblico ben conosce per nome e di cui incoraggia l’apparizione nei film comici e nelle commedie.

Per Barker, abituato ai risparmi della serie B, non è poi un’esperienza diversa da quelle di altri attori americani già presenti in Italia come Frank Latimore (che vi rimarrà dal ’49 al ’63), altri che sono arrivati davvero per una breve pausa – Errol Flynn, Stewart Granger – ed altri ancora – come il caratterista Marc Lawrence che, in fuga proprio dal maccartismo, si stabilisce a Roma dal ’51 fino al ’66.

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Il successo popolare dei due film – diretti da Gian Paolo Callegari con la “supervisione” dell’americano Ralph Murphy – non è buono come spera il produttore Giorgio Venturini che aveva cercato, senza riuscirci, di creare una produzione sul modello di quella con cui, nel frattempo, Dino De Laurentiis stava accorciando le distanze tra Hollywood e Cinecittà.

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Scrive Lorenzo Ventavoli su “La vendetta dei Thugs” : “ ….segna l’unico vero momento di caduta nel gusto e nell’onestà professionale di Venturini che licenzia un film di 75 minuti in cui compaiono lunghi brani di animali, di giungla, di esterni generici, di documentari folcloristici, tutti raccolti nei fondi di magazzino, e in cui vengono riproposte sia per l’introduzione riassuntiva della storia sia per alcuni flashback, intere sequenze dal film gemello “I misteri della Giungla Nera”.

L’opera finale è dunque un ammasso di materiali eterogenei ed in più duelli poveri, un balletto miserando, corse e inseguimenti per i corridoi e gli anfratti del tempio sotterraneo.

(…) Una nota curiosa viene infine dalle risolte difficoltà nell’uso del Ferraniacolor, ricordando che alla proiezione dei rush di “La vendetta dei Tughs”, saltava fuori una bella foresta tutta blu poiché non si era usato il filtro arancione.

Ma di fronte ai costi di nuove riprese Venturini suggerisce invece d’inserire in fase di doppiaggio la battuta ‘Che bella foresta blu’, salvando qualche metro di girato….”

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Benché siano trascorsi quasi cinque anni Lex Barker, “di nuovo nella Hollywood italiana” come scrivono i fogli di settore, si getta su produzioni che, anche nella progettualità, sono povere di soldi e soprattutto di idee innovative, rivolte al pubblico delle terze visioni nelle metropoli e alle sale nelle zone più disagiate del Paese.

Tutti girati in condizioni fortunose, mezzi tecnici al risparmio, costumi e scenografie riciclate, ambientazioni esterne in zone periferiche, battaglie navali sul lago di Bolsena o di Garda, dove, per l’attore americano,  la soddisfazione professionale è il rispetto dei modesti registi e la conoscenza di alcuni colleghi e attrici locali che, in mancanza di meglio, si gettano nel genere avventuroso-piratesco per  incidere sul loro cachet da più di un film l’anno.

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I titoli sono oggi quasi tutti facilmente rintracciabili nel palinsesto di Rai a cui probabilmente i diritti sono stati ceduti in “pacchetto” :

“Capitan Fuoco” di Carlo Campogalliani; “Il figlio del Corsaro Rosso” di Primo Zeglio; “La scimitarra del saraceno” di Piero Pierotti; “Il terrore della maschera rossa” di Luigi Capuano; “Il cavaliere dai cento volti” di Pino Mercanti;  “I pirati della costa” di Domenico Paolella; “Robin Hood e i pirati” di Giorgio C.Simonelli; “Il segreto dello Sparviero Nero” sempre di Paolella, “Il boia di Venezia” ancora di Capuano.

Nove film girati tra il ’58 e il ‘63 a cui va aggiunto, come decimo, “Il tesoro dei barbari” coproduzione franco-spagnola del ’60 diretta da un certo Edmond Agabra a cui sembra abbia lavorato con ben poco entusiasmo un giovane Marco Ferreri.

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E’ noto che Barker, trovatosi in Italia durante le riprese, partecipa anche a “La dolce vita” di Fellini, simulando un noto fatto di cronaca insieme ad Anita Ekberg la quale, allora tornata nubile tra il matrimonio con l’attore inglese Anthony Steel e quello con l’attore tedesco Rick Van Nutter (Clyde Rogers in vari film), è divenuta fuggevolmente la sua vera fidanzata nel contesto, quello reale, dell’autentica “dolce vita” romana tra attrici d’esportazione e bellezze mediterranee.

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Ma, proprio per questo “dolce” contesto mondano europeo che non vuole lasciare, lo yankee antisemita e anticomunista Lex Barker viene contattato da una produzione della Germania Occidentale dove si sta faticosamente cercando di ricostruire una cinematografia autonoma a cui non sono estranei – a parte le numerose firme più o meno compromesse e ai cui risultati Israele non concede il visto d’entrata – registi di enorme prestigio ritornati dopo l’esilio americano dovuto al nazismo : Fritz Lang, Robert Siodmak, William (Wilhem) Dieterle ai quali si è unito l’argentino giramondo Hugo Fregonese e anche Douglas Sirk (Detlef Sierck)  – che però si trasferirà quasi subito in Svizzera per dedicarsi all’insegnamento – e Bernard Vorhaus, già fuggito dalla “red care” negli anni Trenta, tornato negli Usa per una decina d’anni, inserito sulla “lista nera”dal ’51, ritornato definitivamente, dopo una trentina di regie (tra cui, per curiosità, quella di “Die singende Stadt” o “City of Song” – Città Canora©1931 – cofirmate da Carmine Gallone tra Weimar e il Regno Unito) a mettere su una fabbrica di elettrodomestici.

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In questo contesto di autori e produttori che ancora non sanno bene che strade intraprendere per un lancio accurato della produzione teutonica e si basano spesso su coproduzioni, Lex Barker , nel ’59, appare nel da noi inedito “Mission on Morocco” – giallo-spionistico progettato a Monaco ma poi  realizzato dalla Hispamer Film e girato in doppia versione (spagnola e inglese, questa poi doppiata in tedesco) da Carlos Arevalo e Anthony Squire – dai pessimi esiti al botteghino.

La sua presenza è comunque l’unico aspetto di interesse per cui,  nel ’60, accetta due titoli della serie dedicata al Dottor Mabuse, l’infernale personaggio creato da Fritz Lang nel ’22 e ripreso dal grande regista stesso nello stesso anno per la Ccc di Arthur Brauner  – in coproduzione tra Inghilterra,Olanda, e la Cei Incom italiana –  con un cast tipico di questi prodotti : Peter Van Eick (nato in Pomerania e fuggito in Usa dal ’31), la londinese Dawn Addams, l’italiano Andrea Checchi, e Wolfgang Preiss ,tedesco attivo in patria dal ’42 , nel ruolo del titolo.

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I due film – “Fbi contro il Dottor Mabuse” (uscito nel ’61) e “Gli artigli invisibili del Dottor Mabuse” (’62) scritti da Ladislao Fodor e diretti da Harald Reinl – vengono presi sottogamba dovunque ma registrano incassi importanti sia nella Germania dell’Ovest che dell’Est, nei paesi ormai soggetti al Comintern, paradossalmente nei paesi scandinavi e nelle ex nazioni baltiche.

Per questo Brauner chiama ancora Lex Barker per un terzo titolo – “Lo scandalo Sibelius” di Rudolf Jugert – un giallo psicologico a forti tinte che coinvolge il problema dell’aborto in una storia più a sfondo sociale (il suo ruolo è quello di un ginecologo dall’animo turbato) che thriller.

Anche questo, nonostante la censura ne blocchi l’uscita o lo tagli copiosamente in molti paesi, è un successo di cassetta ed anche, strano per il protagonista, di dibattito civile.

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Lavorando in questi film l’attore ha potuto conoscere il fiore delle giovani attrici germaniche – Karin Dor, Maria Rhom, Senta Berger (che poi diventerà una star in Italia), Liselotte Pulver, Barbara Rutting, la francese Marie Versini e la danese Ann Smyrner – ha avuto la soddisfazione di interpretare per la prima volta un ruolo drammatico complesso elaborato dalle migliori firme a disposizione a Monaco di Baviera, il suo nome è già divenuto celebre in luoghi dove nessuno può ricordare le sue prestazioni americane che non vi sono giunte per via della guerra.

La decisione di rimanere in Germania è presa nel ’62 e, nel ’65,  tanto per non farsi mancare un riconoscimento ufficiale dal borgomastro di Berlino, sposa la compagna Irene Labhardt, di nazionalità svizzera, che morirà nello stesso ’62 di leucemia lasciandogli un figlio (di cinque che Barker avrà) nato nel ’60.

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Ma il suo destino deve ancora compiersi.

Dopo due film secondari, ma di cui il primo sarà destinato alla televisione con relativa fama aggiunta – “Berlin Melodie” e “E il letto continua a raccontare” del ’63, sempre prodotti dalla Ccc – partecipa a “Tempesta su Ceylon” un semicolossal avventuroso organizzato dalla Ccc con un curioso personaggio italiano – Enrico Bomba – e la coproduzione francese che porta Magalì Noel e Maurice Ronet accanto ai nostri Eleonora Rossi Drago e Franco Fabrizi.

La regia è affidata a Giovanni Roccardi, un capitano di lungo corso che s’era dedicato al documentarismo marino ed è qui alla sua ultima fatica.

Ma, sui manifesti e nei titoli, il film è “di Gerd Oswald”, un altro profugo dal nazismo, figlio di un fondamentale regista del muto tedesco e di un’attrice di non poca fama nella Germania prebellica e di Weimar.

Oswald lavorò quasi esclusivamente negli Usa dove diresse, tra i tanti, pochi film di vaglia – “Gioventù senza domani” (20thC©1956) da Ira Levin; “Delitto senza scampo (Ua©1958) scritto da Jo Eisenger; e l’interessante “Scacco alla folla” , da “La novella degli scacchi” di Stephan Sweig, girato in Europa – per poi darsi alla produzione seriale.

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Qualunque sia stato l’apporto di Oswald, “Tempesta su Ceylon” è un vero successo internazionale.

Oggi è quasi impossibile comprendere, per chi non ha vissuto il cinema di quegli anni almeno da bambino, come potevano crearsi fenomeni simili mettendo insieme apporti artistici di diverse nazioni, panorami tropicali, suggestioni divistiche di orizzonte limitato.

Ma, evidentemente, lo sapeva una personalità variegata come Enrico Bomba, ideatore e produttore di ogni tipo di film, capace di passare, a suon di cambiali, da una farsa con Nino Taranto ad una combinazione italoamericana con Eleanor Parker e Jayne Mansfield, Maurice Chevalier ed Alberto Rabagliati in un cast così stravagante.

Tra l’altro Bomba aveva già prodotto con Lex Barker, in un momento di magra, “Robin Hood e i pirati”.

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Ma, intanto, il colpo definitivo è già nelle sale e dal settembre 1962 resiste in tutta Europa, anche in Italia dove, sebbene sia per lo più scambiato per un film americano, “Il tesoro del Lago d’Argento” ha lanciato il western tedesco con l’attore francese Pierre Brice nel ruolo del capo apache Winnetou e Lex Barker quale Old Shatterhand lo scout bianco suo amico per la vita.

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“Il tesoro del lago d’argento” ricordo benissimo di averlo visto, probabilmente in qualche ripresa estiva (non potrei averlo memorizzato prima ma a cinque o sei anni si) e di aver creduto si trattasse di un prodotto hollywoodiano ma con qualche strana suggestione in più.

Infatti – come vedremo in tutti gli altri film successivi della saga di Winnetou, non ancora concepita come tale – colpiscono i paesaggi dell’alta montagna croata così incantevoli come zona narrativa avventurosa ma anche stanziale per i pellerossa;  così diversi da quelli western girati tra aspri deserti, violate praterie e foreste fittissime.

Ed avvince inconsapevolmente l’accompagnamento delle musiche di Martin Böttcher  – anch’esse ben poco simili alle tonitruanti colonne sonore hollywoodiane – corteggianti montagne impervie e laghi specchiati, creanti un’atmosfera alla ricerca di armonia da conquistare più che conflitto da intraprendere inesorabilmente.

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Anche gli attori – a parte Lex Barker – sono diversi. Nessuno sospetta la loro identità ma sono tutti europei.

E infatti il cattivo, che muore sprofondando nelle sabbie mobili, è l’inglese Herbert Lom destinato ad imperitura fama come l’ispettore Dreyfuss nel ciclo de “La pantera rosa”.

La “bella” è Karin Dor;  gli attori terziari sono tutti tedeschi o jugoslavi.

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La trama è basata su vicende e personaggi che si avvicinano di più alla genuina ingenuità dei fumetti della EsseGesse che all’ovest psicologizzato d’oltre oceano.

E sono storie ardite nel rifare la Storia come piaceva ai piccoli di allora, senza pudori storici, tratte dai romanzi di Karl May, il “Salgari tedesco” che non era poi così conosciuto da noi nemmeno ai tempi dell’Asse Roma-Berlino.

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Proprio per queste caratteristiche “Il Tesoro del Lago d’Argento” sarà un enorme successo di pubblico e riproporrà, con nonchalance del tutto estranea all’universo storico-avventuroso americano, una nuova visione dell’ “indiano buono” e del “cacciatore bianco” spontanea e semplicista ma anche volutamente legata ad una concezione razziale che, se pur indirettamente, risente veramente del gravoso peso degli orrori della Shoah.

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Dal ’61, in Spagna, si producevano già western europei che poi venivano lanciati con nomi fittizi e derivazioni letterarie inesistenti.

Anche lì, ma solo inizialmente, si attinge ai romanzi e ai copioni originali di José Luis Mallorqui (1913-1972) uno strano narratore ultraprolifico, creatore di fumetti in Argentina durante la Guerra Civile e poi, tornato in patria, di storie a tavole di Cico Batet che arrivarono anche in Italia, fin dal ’48, con la casa editrice Juventus e quindi furono diffuse più disordinatamente dalla Dardo nelle edicole sino agli anni Sessanta.

Il suo protagonista più celebrato era El Coyote, una specie di Zorro che si opponeva però al dominio statunitense della California, ed aveva ispirato il cinema iberico fin dal ’54.

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La prima società decisa a realizzare western ad arrivare in Almeria è la Hammer inglese che, nel ’61, realizza “I fuorilegge della valle solitaria” – con Richard Basehart , Don Taylor e Alex Nicol – scambiato da tutti per un western tradizionale.

Uscendo a Roma il 23 marzo 1963 quasi certamente sarebbe il primo eurowestern con trama classica ad apparire in Italia.

Ma “Il segno di Zorro” (’62) già con atmosfere similari e diretto dal nostro Mario Caiano – prodotto da spagnoli, italiani e francesi; distribuito dalla Titanus – era già uscito, al Cola di Rienzo e all’Appio nella Capitale – il 27 luglio dello stesso anno.

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Ancora Caiano adatta il primo romanzo di Mallorqui – “Il segno del Coyote” – e lo gira,  tra novembre e dicembre sempre del ’62, con i soldi di due società iberiche – Copercines e Hispamer – ma anche della Pea di Alberto Grimaldi che pochi anni dopo diventerà una delle più grandi società europee.

Uscendo il 14 luglio 1963 al Reale, al Roma e al New York, non batte gli inglesi per i tempi ma si afferma immediatamente tra il pubblico meno esigente e più diffuso.

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Anche “Il segno del Coyote” ricordo bene d’averlo visto da piccolo, sia o non sia stata una riedizione, colpito per la partecipazione, nel ruolo del cattivissimo e corrotto governatore, di Mario Feliciani, grande attore di prosa allora notissimo in tv, il quale però dava al film una eccentrica familiarità così vicina ai fumetti della Cenisio.

Rivisto oggi “Il segno del Coyote” suscita sorriso e pena per le divise inventate di sana pianta, l’arredamento con pezzi presi certamente da qualche produzione di pirati, e i due protagonisti inabili alla recitazione, la California più inventata che giocando sulla spiaggia coi soldatini, i dialoghi di una banalità efferata.

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Ben poca è la stima per questo suo lavoro dello stesso Caiano, il quale, intervistato per uno special tv, tiene a sottolineare le scelte obbligate e forzose dei registi di genere di quei tempi.

Lo stesso Caiano racconta, a sottolineare il grottesco di tutta la creazione, che Mallorqui, prima di mettersi a scrivere, si vestiva di tutto punto da cow boy. Si suiciderà a cinquantaquattro anni seguendo la moglie appena morta per leucemia.

Il torero messicano Fernando Casanova, fuori forma anche fisicamente, ingaggiato per il ruolo del Coyote, tenterà di sopravvivere nell’eurowestern ispanico e tedesco come Fred Canow, ma mollerà presto.

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Eppure, da questa babele surriscaldata e frettolosa, nasce il western europeo che, per quattro anni, genererà una cinquantina di prodotti, alcuni di tutta dignità, resistenti anche al  pubblico zoticone dei grandi cinemoni di periferia romani e milanesi, dove di solito, nelle proiezioni extraserali, se il film non piaceva, si lanciavano contro lo schermo gatti morti agitati per la coda, cicche accese di sigaro toscano che, se finivano nel colletto di qualche spettatore delle prime fila, scatenavano scontri di massa con intervento manganellante della Celere.

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In Spagna, dove anche le sale sono sorvegliate all’esterno dalla Guardia Civil, il pubblico popolare non si renderà nemmeno conto di quanto sta succedendo, pur coi soldi dello Stato franchista, finché le troupe non inizieranno ad arrivare a centinaia da tutto il mondo.

Comincia, in quell’epoca (nel ’62 esce anche il primo “James Bond-Agente 007-Licenza di Uccidere” che sbanca proprio perché è un prodotto europeo senza le fisime del tipico racconto hollywoodiano) una rivoluzione della narrazione cinematografica popolare che, nel bene e nel male – ancora più sconcertante e seminale con l’uscita successiva di “Per un pugno di dollari” (’64) – renderà il cinema europeo, anche d’autore, davvero competitivo con quello americano e l’Italia la seconda potenza cinematografica del mondo per vent’anni.

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E’ in questa particolare situazione che Horst Wendlandt – produttore esecutivo di Arthur Brauner, il principale produttore tedesco, e uno dei direttori della Rialto Film di Peter Philipsen che è il padrone della distribuzione nazionale – inventa a Berlino il western tedesco basato sui romanzi di Karl May.

Infatti “Il tesoro del lago d’argento” era stato pensato per vedere se funzionava col pubblico tedesco e, come abbiamo accennato, solo dopo il successo diventa il primo di una lunga serie da distribuire un po’ dovunque.

Wendlandt imbandisce perciò una produzione tedesca che possa far concorrenza al resto dell’eurowestern concependo un ciclo scaturito pur dall’intesa con Philipsen e soprattutto Brauner.

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Karl Friedrich May (1842-1912), l’autore, fu uno scrittore di grande popolarità nella Germania guglielmina ed anche un compositore musicale di vaglia. Tanto che, per la mente disturbata dallo scontrarsi delle due attività, si ammalò di disturbi bipolari non prima di essere stato sia in America che in Turchia dove sono ambientate le sue due saghe più salienti : quella del capo apache Winnetou sempre accompagnato dall’amico bianco Old Shatterhand e dell’avventuriero cosmopolita-turco Kara Ben Nemsi agente tra la Crimea e le montagne ottomane.

Se non vide mai il successo cinematografico e televisivo delle sue opere, con relativo merchandising (dai soldatini ai costumi di carnevale fino ai più recenti videogiochi e serie tv), Karl May ebbe comunque il privilegio – che a Salgari non toccò mai – di visitare i luoghi che aveva raccontato in edizioni che sono arrivate anche da noi, ma senza la rinomanza di altri scrittori d’avventura, prima prevalentemente da Salani e poi dalle Edizioni Paoline tra il ’38 e il ’78 circa.

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Sebbene la sua prima apparizione di rilievo nelle librerie italiane dovrebbe essere proprio con “Il tesoro del lago d’argento” (Sonzogno, 1939) non si è mai provveduto ad una sistematizzazione cronologica dell’opera, preferendo la traduzione casuale di volumi che avevano avuto successo in Germania dove May gode ancor oggi di fama notevolissima.

Insomma, se i film della serie di Winnetou e di Kara Ben Nemsi, dopo l’affermarsi delle produzioni imitative dei film di Leone, sono presto finiti nel raro mercato delle pellicole in super8, sarà stato anche perché la grande affermazione di Karl May non ha mai veramente superato le Alpi pur garantendo il richiamo nei paesi di lingua tedesca e, quando si è propagata entusiasticamente oltre il Reno, lo ha fatto in direzione nord/nord-est.

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Lo stesso Horst Wendlandt – da me personalmente incontrato in un hotel di Trento nel 1997 ed intervistato per ore e ore – ci teneva molto a ribadire come, mentre il western spagnolo e italiano fu dall’inizio indirizzato alla scopiazzatura di quello americano e solo casualmente all’originalità europea, quello tedesco, che considerava prevalentemente “suo”, era nato come una produzione autonoma, in lingua teutonica, indirizzata al pubblico che già conosceva la tradizione di May e non scambiava i film per produzioni estranee ad un clima tramandato da generazioni.

E, se le coproduzioni con l’Italia e altri paesi erano necessarie finanziariamente, si badava bene che gli attori stranieri parlassero in tedesco, non in inglese, nella versione originale.

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Questo fenomeno non fu affatto colto qui da noi.

Avevamo, per esempio, la saga di Tommy River (che pur ebbe un notevole riscontro tra i bambini anche per la presenza dell’autore sul “Corriere dei Piccoli)  elaborata da uno scrittore di valore come Mino Milani, ma nessun produttore ha mai pensato di farci un film.

Da un certo punto in poi – come la narrativa di Milani ma anche quella della casa editrice Capitol dedicata a Davy Crockett e Buffalo Bill – col prevalere delle tipologie alla Leone e poi alla Barboni, il western tedesco, come quello spagnolo dei primi anni, è stato gradualmente rifiutato come troppo “classico”, tralasciato perché troppo ispirato a culture estranee o viste come americanoidi ma ormai appassite.

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E questo, in qualche modo, Lex Barker dovette capirlo benissimo quando, la prima volta che indossò la giubba di daino di Old Shatterhand, lo fecero doppiare in tedesco.

Dal terzo film, diventato padrone della lingua, andrà anche in presa diretta.

Pierre Brice (nato a Brest nel ’29 e Winnetou sino al ’98) che aveva lavorato con Carné e in Italia con Damiani e Luigi Filippo D’Amico, lo seguirà.

E, quando prese il Bravo Otto – una specie di Nobel interno per chi ha dato un indiscutibile tributo alla cultura germanica – e il Bambi – qualcosa di più di un Oscar del tutto tedesco – evitò accuratamente di allacciarsi ai suoi trascorsi americani.

Ormai era Old Shatterand e Kara Ben Nemsi per un solo popolo.

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Oggi gli western tedeschi sono anch’essi parte integrante della programmazione satellitare della Rai e ne rappresentano da anni un “pacchetto” fin troppo proposto.

Ma, in specie quelli della saga di Winnetou, molto più raramente apparsi in tv, sono però usciti in dvd, in ottime copie restaurate digitalmente.

Le undici pellicole col poco verosimile capo apache e il suo “pard” bianco furono prodotte, tra il ’62 e il ’68, quasi tutte dalla Rialto di Wendlant.

Solo due sono opera esclusiva della Ccc di Brauner.

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Dati gli impegni di Lex Barker in tre pellicole è sostituito da Stewart Granger (il quale sembra fosse piuttosto stizzoso in questi impegni) e in una sola da un incartapecorito Rod Cameron in ruoli diversi ma simili sempre ideati da Karl May : Old Surehand e Old Firehand.

Al fianco dei due eroi principali figurano quasi sempre Karin Dor, gli attori di commedia molto noti in Germania Ralf Wolter, Eddi Arent e Paddy Fox, e, tra gli italiani arruolati per ragioni coproduttive, Mario Girotti non ancora Terence Hill (il quale si è sempre ritratto a parlare di queste pur decorose esperienze) e il quasi onnipresente Rik Battaglia.

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Nel mondo di cactus finti piantati negli altopiani e nei parchi naturali croati di Gorski Kotar, Platak e Rijeka, tra magnifiche immagini lacustri e cascate di potente bellezza, esordiscono Uschi Glass ed Elke Sommer; arrivano altri americani in lunga trasferta latina come Guy Madison e Walter Barnes; lo svizzero Mario Ardof e l’inglese Anthony Steel.

C’è persino Gojko Mitic, serbo di nascita, che diventerà la star dello western dell’Est in molteplici adattamenti di personaggi storici della storia nativa, interpreterà versioni “marxiste” di Fenimore Cooper e, dopo l’89, riproporrà diverse versioni del mondo di Karl May.

Ma, sempre amplificata dalle melodiche e trascinanti colonne sonore, l’attrice più presente è la francese Marie Versini nel ruolo, con tanto di parrucca con le trecce che solo in quel clima fantasioso poteva non sembrare tale, della sorella sempre in pericolo di Winnetou.

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Questi film con Old Shatterhand e Winnetou furono tutti esportati in Italia ma per tutti si è provveduto ad una versione adattata e nomi dei personaggi spesso mutati per essere più facilmente pronunciati, e in alcune, per problemi di sincronizzazione, vengono utilizzate anche musiche di Riz Ortolani il quale, in qualche copia, appare come unico autore della colonna sonora.

Nel presentarne l’elenco cronologico ricordiamo ai lettori più giovani come gli stessi titoli nostrani, dopo il ’65, furono adattati ai gusti mutati dal western vendicativo e brutale della vastissima genia di imitatori di Sergio Leone mentre, nei precedenti, l’evocazione dell’Ovest americano è ancora evidente.

“La valle dei lunghi coltelli” (’63) di H.Reinl; “La battaglia di Fort Apache (’63) di Hugo Fregonese; “Giorni di fuoco” (’64) di H.Reinl; “La dove scende il sole” (’64) di Alfred Vohrer; “Danza di guerra per Ringo” (’65) di Harald Philipp; “Desperado Trail” (’65) di H.Reinl; “Surehand Mano Veloce” (’65) di A.Vohrer; “Il giorno più lungo di Kansas City” (’66) di H.Philipp; “Tempesta alla frontiera” (’66) di A.Vohrer; “L’uomo dal lungo fucile” (’67) di H.Reinl.

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L’accoppiata Lex Barker-Pierre Brice raggiunge, nel ’64, una tale notorietà (in Austria, Ungheria e Cecoslovacchia cominciano a dedicargli anche programmi televisivi e radiofonici) che Brauner si associa con una società di Madrid e li spedisce in Spagna per tentare di lanciarli nell’eurowestern che sta per esplodere e si suppone possa varcare il mercato americano.

Il film che ne esce  – “Sfida a Glory City” uscito nel ’65 – interpretato dai due nei ruoli di peculiari caratteri del west originale  – il pistolero yankee della prateria e quello raffinato e francofono giunto da New Orleans – ha un regista americano – Sheldon Reynolds (qui divenuto Ralph Gideon) per quanto poco noto – e si avvale della stessa troupe ispano-tedesca installata in Almeria che diventerà familiare da “Per un pugno di dollari” in poi : Marianne Koch, Wolfgang Lukschy, Aldo Sambrell, Jorge Rigaud.

Ma “Sfida a Glory City”, che vanta il primato di essere uscito in Usa prima dei film di Leone grazie alla presenza di Lex Barker, non ha un vero successo ne in Europa ne in America. Solo in Germania dove i due tornano per riprendere i ruoli della loro affermazione.

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Ma il destino di Lex Barker è pur sempre legato alla fama di se stesso.

Tra il ’62 e il ’63 è stato tra i protagonisti del dittico-colossal “Kaly Yug la dea della vendetta” e “Il mistero del tempio indiano”, concepiti in Italia dal “cumenda” Rizzoli per una coproduzione con la Germania dove Fritz Lang aveva diretto, nel ’58-’59,  un’altra saga distribuita in due film  –  “La tigre di Eschnapur” e “Il sepolcro indiano” – di ambiente e spirito fatalmente simile, sceneggiati prevalentemente da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, diretti da Mario Camerini.

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La sua nuova avventura nel mitico oriente salgariano è un altro successo.

La critica preferisce Lang a Camerini ma, questa volta, al botteghino arrivano le masse anche in Italia.

Su queste due opere di grosso impegno finanziario – che poi, in pratica, sono una sola poiché girate insieme per essere proposte una dopo l’altra in un mondo ancora estraneo alla serialità televisiva – va detto che il mestiere della troupe italiana si dimostra al livello delle grandi operazioni di De Laurentiis (per il quale Camerini aveva diretto “Le avventure di Ulisse” già nel ’54) e la presenza di Barker aiuta nell’esportazione.

Il pubblico statunitense – colpito dalla fascinazione tutta europea per l’oriente misterioso e  (un po’ di faccia tosta in più rispetto all’operazione di Fritz Lang) in questo caso attecchisce abbastanza.

E, bisogna oggi affermarlo, si tratta davvero di ottime fatture avventurose che non pretendono alcun sottofondo socialpsicologico ma danno quel che promettono.

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In questo momento Barker è richiamato in Usa da diverse società ma pur sempre per prodotti romanzeschi.

Decide quindi di rimanere in Germania dove il suo prestigio raggiunge vette divistiche che mai otterrebbe ad Hollywood.

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Quindi, oltre a proseguire la saga di Winnetou, si cimenta da solo in altre produzioni.

Oltre al poliziesco “I quattro volti della vendetta” – girato nel Regno Unito per una collaborazione tra Wendlant e la Tower – interpreta  Kara Ben Nemsi in “Una carabina per Schut” (’64, diretto persino da Robert Siodmak); “Il giustiziere del Kurdistan” (’65, di Franz Josef Gottlieb); “Guntar il temerario” (ancora del ’65 e realizzato in Jugoslavia quasi in contemporanea come il precedente dallo stesso Gottlieb).

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Sarà interessante notare come queste pellicole realizzate da Brauner, nonostante siano nelle sale italiane destinate ormai a accoglienze non vertiginose, vedano una pressante coproduzione italiana a ragione dell’esportazione, negata al prodotto nostrano, nell’Europa dell’est, da cui la distribuzione romana ricava non eccezionali ma buoni ricavi.

Non a caso nel primo troviamo una folta partecipazione di attori italiani – oltre al proverbiale Rik Battaglia vi sono Maria Grazia Francia, Alessandra Panaro, Nadia Gray e Renato Baldini – mentre per il terzo si convince ad utilizzare una parte di esterni in Spagna e tutta la legione degli ispanici del cinema di serie B-C del periodo : Fernando Sancho, Antonio Casas, Gustavo Rojo.

Ciò ci fa comprendere come la cinematografia germanica, di cui Lex Barker è il volto da mostrare dovunque quale garanzia economica, dimostri già, a metà decennio, i suoi pregi ma pur le sue debolezze.

I mercati a cui si rivolge non possiedono monete forti, il Patto di Varsavia impone restrizioni che le banca centrale di Bonn non riconosce; se non si apre al cinema hollywoodiano almeno distribuendo molto di più le sue realizzazioni, la politica autarchica di cui Wendlant si vantò con me trent’anni dopo, poteva divenire un’illusione.

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In questo contesto Lex Barker è ben conscio, al di là delle soddisfazioni e del gusto personale ormai adeguato, che, se non interpretasse un ruolo virtualmente americano nella serie di Winnetou, rischierebbe di non tornare, come in fondo sogna ancora, nel suo Paese dove i suoi trascorsi legali sembrano essere stati accantonati dalla giustizia (ma non è vero).

Il suo scopo è rimanere un divo in Germania (dove un foglio satirico lo ha definito con indubbia ironia “il Tarzan della Foresta Nera” sebbene non si sia mai girato un fotogramma nel Mittelgebirge) ma solidificare (forse) la sua notorietà in Usa e, per questo,rinnegando furbescamente il suo passato ideologico, si reca in visita agli attori americani al lavoro in Spagna e, incontrando nel ’64  Charlton Heston (allora ancora democratico convinto e attivista dei diritti civili) sul set romano di “Il tormento e l’estasi” (20ThCFox©1965) gli rilascia un ricco assegno da consegnare direttamente a Martin Luther King.

Grazie alle sue amicizie tra la nobiltà capitolina e i capitani d’industria del nord che vengono a godersi la “dolce vita” sul Tevere, tenta (senza gran successo a dir il vero) di lanciare campagne a favore di Bob Kennedy;  cerca di richiamare in Italia Sidney Poitier ed Harry Belafonte i quali gli rispondono cortesemente ma non vengono.

E’ cambiato l’ambasciatore, G. Frederick Reinhardt, che è un uomo di Johnson e rimarrà nella sede di via Veneto dal ’61 al ’68, e l’anticomunismo, che pur persiste nelle direttive diplomatiche, non è più il collante essenziale che può appiccicare alla politica la fortuna di un attore come lui.

Intanto in Germania, dove pur governano i socialdemocratici di Willy Brandt, all’opposto una parte dei suoi fans teutonici non gradisce tanto trasporto per i leader di colore e una certa Sinistra americana.

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La sua prestazione essenziale del tempo è quella legata ad un’altra saga, meno conosciuta, di Karl May, ambientata in Messico e Sud America tra riferimenti storici peregrinanti e templi indiani perduti sulle sierre, ed ha come protagonista il dottor Sternau, avventuriero e medico di origine tedesca utilizzato da Lincoln per missioni diplomatiche con il governo di Benito Juarez.

All’origine vi sono due romanzi – “Il tesoro degli Aztechi” e “La piramide del Dio Sole” – e quindi, anche questa volta, si tratta di un dittico, diretto da Siodmak – aiutato come collaboratore da Ernst Marischka (il regista di tanti titoli con Sissi, la “giovane imperatrice” impersonata da Romy Scheidner) – composto di due film, rispettivamente di 102 minuti, che escono nel ’65 dopo lunga lavorazione tutta in Jugoslavia e nei nuovi teatri di Monaco.

In Italia è uscita una versione unica, di 120’ circa – “I violenti di Rio Bravo” – ed è anche questa la copia apparsa in un dvd pur di buona fattura.

Ed è sempre questa la versione che io vidi, con grande passione infantile data l’apparizione di personaggi storici e il miscuglio strano ma intrigante tra dragoni e ussari di diversa nazionalità, banditi con le colt automatiche e fucili ad avancarica, intriganti politici stranieri in finanziera alla Giolitti, indios di origine azteca e strani scienziati giramondo.

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In effetti solo un uomo come Siodmak, vissuto per tanto tempo negli Usa, poteva dare un ordine logico alla vicenda trovando una soluzione quasi perfetta facendo interpretare Lincoln da Jeff Corey (uno dei maestri di Marlon Brando e Paul Newman, tornato da una lunga discriminazione politica) e il nostro Fausto Tozzi il quale impersona Juarez con un’attitudine e una somiglianza fisica forse mai così meglio spese dai tempi di Paul Muni.

Per la trama complessa, il cast eterogeneo come al solito (e qui davvero Rik Battaglia – come il malfidato capitano Verdoja – è un vilain di tutto rispetto, dotato di sottile ambiguità e oscura fascinazione) ai tempi delle mie scuole elementari lo vidi e rividi con tale partecipazione che feci di Sternau e Verdoja i protagonisti dei mei giochi che poi, in quei tempi ormai dominati dal cinismo dei pistoleri leoneschi, non avevano molto richiamo tra i miei coetanei tranne uno col quale condividevo la passione prematura soprattutto per gli allestimenti teatrali formati sulla prosa Rai.

Si tratta, in effetti, anche nella versione tagliata, di un caso unico, specie se si pensa che Siodmak, che non ne aveva mai diretti ad Hollywood, si cimenta per la prima volta col western.

E lo farà così bene che, nel ’67-68, Philip Yordan e Irving Leiner, come produttori in trasferta spagnola, gli affideranno l’ancor più impegnativo “Custer eroe del west” (’68), visione anticonformista dell’infame personaggio che per un decennio venne proiettato nelle proiezioni estive delle sale di seconda scelta.

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Poiché anch’esso è parte del “pacchetto” Rai è giusto qui segnalare che Marischka diresse, sulla stessa strada de “I violenti di Rio Bravo” e utilizzando scene e costumi dell’altro film, il film “Viva Gringo” (’65) dal romanzo “L’eredità degli Inca” del ciclo messicano-equatoriale di May.

E’ un’altra storia dove Sternau non compare ma il personaggio americano-tedesco è un certo Jaguar (nella versione italiana chiamato Gringo, coi tratti di Guy Madison) anche lui implicato in avventure tra il politico-storico e l’avventuroso-fantastico.

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Mentre, visto con gli occhi di oggi, il film di Siodmak mantiene il suo confuso fascino,  non si può dire lo stesso di quest’altro dove l’apporto italo-spagnolo (coproduce Salvatore Alabiso e ci si avvale di capitali bulgari !) crea notevoli situazioni sull’orlo del ridicolo : il sommo sacerdote  di Carlo Tamberlani (già associato di Ermete Zacconi e docente di recitazione al Csc), il bandito Gambusino di Francisco Rabal, l’immancabile Rik Battaglia.

Le riprese nei teatri di Sofia si fondono male con gli esterni jugoslavi e spagnoli.

Anche il cinema tedesco, con questo film, entra nel gioco perverso delle coproduzioni raffazzonate che cercano di evitare Grimaldi dall’Italia in Spagna e Brauner-Wendlant  da Berlino.

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Nel ’66 Lex Barker è chiamato ancora in terra spagnola per una coproduzione tra Brauner e la Tilma di Barcellona.

Si tratta di “Una bara per Ringo”, diretto da José Luis Madrid e girata negli studi Balcazar di Barcellona, la sede dei più scalcagnati western iberici che, pochi anni dopo, finiranno incendiati dagli stessi proprietari, improvvisati registi e imprenditori del cinema provenienti dal commercio dei cavalli per il cinema straniero.

Si tratta di un film molto semplice e prevedibile, molto ovvio, molto brutto, dove Barker deve essersi reso conto come, a differenza delle opere tedesche, da quelle parti spirasse già aria di disfacimento di un genere che aveva ormai dato troppo, molto del peggio e poco del meglio.

Il suo atteggiamento poco conciliante non è diverso da quello di tanti altri malamente invischiati nelle situazioni più miserande ed eterogenee.

Ma lui può tornare in Germania, nella sua patria d’adozione.

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Dopo l’ultimo film con Winnetou (’68) non girerà più western mentre, ancora prima, si lascia andare a prestazioni svariate – per diverse ragioni – che lui stesso sa assai discutibili.

“Sette volte donna” (’67) di De Sica dove compare in un solo un episodio ma si paga un piacevole soggiorno a Roma;

il tremendo “Muori lentamente…te la godi di più” (’68) di Gottlieb, una specie di demente spionistico ironico dove Amedeo Nazzari conduce la più umiliante delle sue  interpretazioni gastronomiche;

l’erotico spagnolo “Aoom”(’70) che gira per farsi una vacanza sulla Costa Brava.

E conclude la carriera con la commedia “Storia d’amore a Bangkok” (’71), ancora di Gottlieb, che gli serve a chiudere il contratto con Brauner.

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Nel ’65 ha sposato Carmen (detta Tita) Servera (Miss Spagna 1962) ma, prima di ripartire definitivamente per gli Usa (’72), ha già divorziato poiché s’è legato prima all’attrice inglese Ziena Merton e poi alla miliardaria  Karen Kondazian, vedova di un membro della famiglia Krupp.

Tornato in Usa,  si tiene lontano dalla magistratura californiana che non ha dimenticato la compromissione con la figlia bambina di Lana Turner,  si stabilisce a Manhattan, gira qualche telefilm e passa per qualche show televisivo, cerca di avvicinarsi ai figli.

Sembra che in Germania il pubblico lo richieda ancora, e, nella primavera del ’74, rifletta se non valga la pena di rimettere piede definitivamente nella sua vera casa professionale.

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Un giorno qualsiasi, mentre passeggia nell’Upper East Side, viene stroncato per strada da un infarto e muore sul colpo a cinquantaquattro anni.

La moglie Tita (con la quale risulta ancora sposato in un palese caso di bigamia internazionale e, per vendetta del destino, si è legata alla famiglia Tyssen divenendo anch’ella ricchissima in Germania) ne pretende le ceneri nel suo buen retiro in Spagna.

E così i resti del divo più tipicamente nordico e forestale ceduto dagli Usa all’Europa si ritrovano al caldo rovente della Catalogna.

***

Certamente la vita privata di Lex Barker non sarà mai un esempio positivo per nessuno.

Il suo fascino di playboy è ormai svanito nella memoria di un jet set che non esiste più.

Ma rimane, nonostante tutto il bagaglio di illazioni e gossip, il suo personaggio – assai più frequentato di Tarzan e il suo perizoma –  del cacciatore con la pelle di daino, il prolungato schioppo ad acciarino, la cavalcata nobiliare al fianco dell’indiano-francese Pierre Brice sulle rive del lago d’argento.

E Rimane quindi un eroe che, al di là delle idee e del carattere del suo interprete, ha segnato, dai tempi di “Lo sparviero di Fort Niagara” sino a “L’uomo dal lungo fucile”, un esempio di tolleranza razziale e convivenza romanzesca che, pur nella fantasia di un pubblico ormai smarrito, ha colpito e condizionato migliaia di bambini e adolescenti europei i quali poi, lo hanno ritrovato più consapevole e maturo, in certe avventure di Hugo Pratt nelle valli dell’Ohio settecentesco e nei racconti con Canada Jean, Falco Bianco, e il più evoluto Ken Parker.

 

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