Di Massimo Lechi.
Unico titolo italiano in lizza per il Globo di Cristallo alla cinquantasettesima edizione del Karlovy Vary International Film Festival (30 giugno – 8 luglio 2023), Il vento soffia dove vuole segna il ritorno dietro alla macchina da presa di Marco Righi, a ben tredici anni di distanza dall’apprezzato I giorni della vendemmia (2010).
Fortemente influenzato da Bresson, da Bergman e dalla loro ricerca sulle possibilità di rappresentazione cinematografica del trascendente, glaciale nell’austera linearità di una messinscena improntata al massimo rigore, il secondo lungometraggio del regista reggiano, ambientato ancora una volta tra i soleggiati paesaggi dell’Appennino emiliano, racconta l’enigmatica parabola di Antimo (Jacopo Olmo Antinori), giovane devoto alle sacre scritture, roso interiormente dal ricordo della madre morta, che a seguito dell’incontro con l’ingenuo miscredente Lazzaro (Fiorenzo Mattu) tenta di raggiungere, di toccare il cuore profondo della propria fede in Dio, finendo col perdersi e annullarsi attraverso un gesto estremo.
Un film fuori dal tempo, duro e senza compromessi, che richiede spettatori pazienti. La scelta, da parte di Karel Och, direttore del KVIFF, di inserirlo nel concorso principale è stata senza dubbio molto coraggiosa.
Sono passati tredici anni dal tuo esordio alla regia. Cosa ti ha tenuto lontano dal set tutto questo tempo?
Ci sono state delle vicissitudini, anche familiari, ahimè, che hanno in qualche modo pesato sulle mie possibilità di girare un secondo film immediatamente dopo I giorni della vendemmia. In questi anni, in realtà, da parte mia c’è anche stata la volontà di cercare dei produttori, perché avevo un altro progetto in cantiere. Un progetto più ambizioso da un punto di vista economico, che però per una serie di motivi, tra cui una certa mancanza di ascolto, si è congelato. Il vento soffia dove vuole, invece, è stato realizzato con meno di duecentomila euro, in diciotto giorni.
Pochissimo.
Ti lascio immaginare le difficoltà… Diciamo che il progetto bloccato e il periodo del Covid, in cui tutti siamo rimasti fermi, sono stati propedeutici a questa nuova storia, che è di nuovo molto intima. Io la definisco un dramma da camera: sei attori, tre figurazioni più qualche comparsa, e una location in cui abbiamo girato il 70% del film.
E l’idea de Il vento soffia dove vuole come ti è venuta?
A ispirarmi sono stati un fatto di cronaca locale che mi aveva colpito, la morte di una persona a me cara e il rapporto con la sacralità che avevo avuto in passato, in maniera individuale, quando fino ai vent’anni avevo frequentato la chiesa. E poi una mia ricerca più prettamente cinematografica, legata all’incontro con il saggio Il trascendente nel cinema di Paul Schrader.
Ci sono diversi elementi di continuità tra I giorni della vendemmia e Il vento soffia dove vuole. Il rapporto tra i due film è molto forte. Entrambi, innanzitutto, non sono collocati nel presente: il primo film era ambientato negli anni Ottanta, quest’ultimo invece in una contemporaneità che però di fatto è fuori dal tempo.
Quando ho iniziato a lavorare a Il vento soffia dove vuole mi sono reso conto che la storia era sì contemporanea, ma anche avulsa dalla modernità.
Scelta estetica?
Estetica, perché comunque troppa modernità in un film non mi piace, e poi il film è ambientato in un piccolo borgo di campagna, che di suo è in ritardo di trent’anni. Inoltre il protagonista la modernità non la cerca.
Il contrasto tra la letterarietà dei personaggi e lo spazio fisico in cui si muovono è molto destabilizzante. I tuoi protagonisti sembrano usciti da un romanzo del tardo Ottocento o del primissimo Novecento.
La mia, qui, è una ricerca introspettiva che si concentra principalmente sul protagonista e il co-protagonista. Come nel primo film, alla base c’è un incontro che cambia i percorsi individuali all’interno della storia, ma a livello narrativo stavolta il movimento non è per azioni, ma per interazioni.
Una dinamica che evidentemente ti piace molto, quella della presenza esterna che irrompe e cambia gli equilibri di una famiglia.
Sì, mi interessa. Anche se devo ammettere che non me ne sono mai chiesto il perché… Credo che Il vento soffia dove vuole abbia sicuramente al centro una vicenda familiare, con la figura della madre, di cui si parla spesso ma che non compare mai e che fa parte della “stratificazione di vissuto” dei personaggi che ho lasciato volutamente ambigua – in fondo è l’ambiguità che contraddistingue la nostra vita e le vicende che ci accadono. Poi è una storia di provincia, ed è la storia di un incontro. Non credo però che sia un film religioso. Ha al suo interno una dialettica religiosa, ma non è un film religioso, no. Io ho cercato di fare un’indagine sulla fede in rapporto all’aspetto più terreno dell’uomo. Sulla fede medesima. Senza esaltazione o condanna, senza manicheismo e giudizi morali.
Una ricerca del senso?
Sì, e dell’atto. Di come una persona può essere devota e di dove la porta questa devozione.
Rispetto a I giorni della vendemmia ho notato un’austerità stilistica maggiore.
È più radicale.
Ho pensato a Bresson e a Bergman, che tu citi chiaramente nella sequenza davanti al fuoco in cui Antimo legge la Prima lettera ai Corinzi di San Paolo.
Bresson, appunto, è uno dei registi analizzati da Schrader nel suo saggio, insieme a Dreyer e Ozu. Mi colpisce il suo legame con il suicidio, che è presente in diversi suoi film. È spiazzante: non ne fa un’apologia però riesce a metterlo in scena in maniera molto diretta. Senza volerlo scomodare, devo dire che gli sono debitore. Nelle Note sul cinematografo scrive che un film, prima di comprenderlo, bisognerebbe sentirlo. Ho cercato di lavorare su questo inciso, e mi piacerebbe che Il vento soffia dove vuole, attraverso i luoghi, le atmosfere e la messinscena, si potesse “sentire”.
Tu però hai un modo molto freddo, oggettivo di filmare. Il dolore di Antimo non ce lo fai percepire drammaticamente.
No, c’è mancanza di empatia… Ma è una cosa voluta: volevo che Antimo fosse algido, e volevo che la tensione fosse nella messinscena. La tensione, più che narrativa, è estetica, stilistica.
Il personaggio di Antimo è profondamente respingente.
È presuntuoso, Antimo. Però nella sua presunzione, nel suo essere saccente e manipolatore, credo cerchi davvero di creare un legame con Lazzaro. Il loro, alla fine, è uno scambio reale.
La sua è la presunzione che deriva dalla fede assoluta?
Esatto.
Per il tuo cast sei ricorso ad attori professionisti: una scelta poco bressoniana.
Non volevo che la scelta di volti molto caratterizzati rischiasse di togliere credibilità o di far sconfinare il tutto nel naïf.
Però era una possibilità, quella di fare una cosa, diciamo, alla Olmi prima maniera…
È vero. Però, come hai visto, nel mio film non c’è dialetto, non ci sono inflessioni. Se non nel caso di Lazzaro: mi piaceva l’idea che avesse qualcosa che evidenziasse il suo essere distante da quel luogo – che pure non è contraddistinto da nessuna emilianità.
Perché togliere l’”emilianità”?
Perché così la lingua è più pulita. È di nuovo una questione estetico-stilistica, di quel rigore che c’è nel film. Ho fatto un lavoro di sottrazione.
Nella seconda metà mi sembra tuttavia che parte di questo rigore venga un po’ meno: la camera si muove di più, è più libera.
È una cosa che è venuta un po’ spontanea, anche grazie al montaggio. Verso i tre quarti del film c’è un certo lirismo, c’è più musica, quasi un’accelerazione. Dopo tutto quello che accade sullo schermo, mi piace che verso la fine ci sia più spazio per lo spettatore, e che gli sia permesso di immergersi nella quotidianità.
Sì, è come se progressivamente ti avvicinassi a personaggi e situazioni, permettendoci di entrare di più nel mondo che racconti.
Del resto quotidianità, scissione e stasi sono le tre fasi di cui parla Schrader nel suo libro. Sarebbe bello che chi vedesse il film se ne distaccasse per arrivare, grazie all’immagine, a un sentimento interiore, a un ricordo, a qualcosa di personale, per poter indagare su di sé. Le immagini permettono piccoli collegamenti personali.
Anche a me sembra che il tuo film lavori su quel piano.
È un film che non concede molto, che non ha la pretesa di intrattenere e che per questo forse sarà difficile da far circolare. Ma ci tengo a dire che quell’assetto produttivo mi ha permesso di fare scelte più libere. Una libertà espressiva che in condizioni differenti forse non avrei mai potuto avere.