di Teresio Spalla.
La recente scomparsa di Raquel Welch (1940-2023) ha stimolato l’attenzione di pochi nei confronti della sua filmografia pur ricca di notevoli spunti critici e storici su ciò che fu il cinema americano dagli anni Sessanta e Settanta ma anche su come la sua industria in crisi divenne parte, almeno per un periodo, del cinema internazionale, del cinema europeo in particolare.
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Raquel Welch nacque da un ingegnere aereonautico boliviano (il suo vero nome era Raquel Tejada) arrivato in Usa per migliorare i proprio apprendimento e, a Chicago, sposò la figlia un prestigioso architetto – Emery Stanford Hall – la cui moglie, nonna di Raquel, era inglese.
Raquel non venne su quindi in un barrio dei sobborghi ma in una famiglia dell’alta borghesia produttiva.
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Ma, nella scelta della sua vita di donna e più tardi attrice internazionale, ebbe peso la cugina, Lidia Gueiler Tejada, indomita combattente del Fronte Nazionale della Sinistra in Colombia, la quale, dall’agosto 1979, diventerà la prima presidente donna del continente, sorvolando sul caso atipico di Evita Peron.
Tornata dopo quindici anni di esilio, Lidia Tejada fu deposta, dopo solo nemmeno quattro mesi, da un ennesimo golpe fascista.
Dopo altri tre anni di rifugio in Francia poté tornare a fare la sua parte come combattente contro i cartelli della droga, militante femminista, viaggiatrice della denuncia nel mondo della disastrate condizioni del suo Paese, scrittrice di acceso impegno e disinvolta sensibilità.
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Raquel, dopo la fama, finanziò dichiaratamente le lotte di Lidia e, dal pur privilegiato podio di Hollywood, entrò a far parte della lega delle attrici ispaniche e la loro condizione di subalterne nella produzione cinematografica e televisiva.
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Ma Raquel Welch, prima di essere un’attrice fu un corpo, e un corpo molto sexy.
Del resto non si può negare che fu lei stessa a servirsene con abilità e nonchalanche.
Spostatasi ad Hollywood si sottopose ad una lunga gavetta (partendo da cameriera di bar) per poi farsi notare, in piccoli ruoli, in teatro e in tv.
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La sua prima affermazione la dovette al suo secondo marito, Patrick Curtis, nato nel cinema d’alto livello e nipote di Billy Wilder, il quale riuscì a piazzarla prima in Viaggio allucinante (film proverbiale di fantascienza dove i protagonisti – lei è l’unica donna – non viaggiano nello spazio ma all’interno di un corpo umano per guarire una malattia al cervello, da una storia di Isaac Asimov) e poi, nello stesso 1966, un film della Hammer casa di produzione inglese specializzata nei film dell’orrore ma anche in tante e spesso bizzarre e invoglianti variazioni romanzesche.
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Il film – Un milione di anni fa – racconta di un gruppo di abitanti preistorici della Terra alle prese con tutto il repertorio fantastico nella concezione di allora del mondo perduto (dinosauri, mostri ancestrali ecc) e rimane un buon film d’avventura realizzato e diretto da specialisti.
Ma l’unica o principalissima ragione per cui l’opera è rimasta nella memoria è il succinto e aderente costume di pelle di daino che Raquel Welch indossa durante tutto il tempo.
L’immagine di lei in quegli abiti stringati divenne un’icona del tempo e fu poi affidata dai responsabili della pubblicità all’illustratore Thomas Chantrell, protagonista della cultura pop britannica, che ne fece svariati viraggi che divennero in pochissimo tempo i più comprati e riprodotti al mondo.
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Con il successo stratosferico (più del top ten bikinis in pop culture, ripreso anche sulla copertina di Time e da Andy Warhol, che del film stesso) Raquel Welch, prima di partire per l’Europa, grazie al marito, aveva ottenuto un contratto con la 20th Century Fox.
Il capo indiscusso della major – Darryl Zanuck – intese lanciare Un milione di anni fa negli Stati Uniti.
Pur anche nella copia inevitabilmente martoriata dalla censura, Zanuck fece di Raquel Welch una star acclamata e ricercata anche dal pubblico americano del tutto disinteressato alle mode culturali europee e sciovinista per partito preso.
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Però, per evitare scontri con le associazioni dell’America puritana dopo il primo viaggio promozionale attraverso gli Usa, l’attrice scelse da se di fare una capatina in Italia per interpretare
Spara, spara più forte, non capisco (sempre del ’66) con Marcello Mastroianni, che, al di là del titolo bislacco e poco pertinente, era tratto niente di meno che da Le voci dentro di Eduardo De Filippo il quale ne curò la regia.
Il pubblico, da quello italiano ad oltre oceano, non colse certo il sommesso tono crepuscolare dell’originale, ma certamente, tradotto il titolo filmico letteralmente in inglese, ne colse il tentativo, non si è mai saputo quanto volontario, di rendere pop ciò che lo poteva diventare.
Non siamo tra i detrattori di questa pellicola prodotta da Franco Cristaldi e distribuita dall’allora potentissimo Joseph E.Levine
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Per inciso, nell’anno successivo, Raquel Welch comparve anche nel film a episodi Le fate – nel dimenticabile episodio diretto da Mauro Bolognini con Jean Sorel – e L’amore attraverso i secoli
(coproduzione franco-tedesca-italiana) nell’episodio, anch’esso poco memorabile, del regista tedesco Michel Pfleghar.
Nonostante si rendesse perfettamente conto che gli esiti di questi film non corrispondevano alla fama internazionale e rischiavano di portarla fuori mercato presso un certo pubblico, Raquel interpretò ancora, nel ’68, Colpo grosso alla napoletana, produzione anglo-americana diretta dall’inglese Ken Annakin, dove, leggenda vuole, il vecchio Edward G. Robinson in trasferta italiana, la esortò ad usare meglio il talento che poteva nascere dal suo richiamo fisico.
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Più tardi ebbe modo di dichiarare come, affascinati lei e il marito dal successo del cinema europeo nel mondo e colpiti dalla creatività cinematografica e non solo del Vecchio Continente, speravano in una celebrità basata su film di forte qualità artistica
Per questo aveva rifiutato in Usa La Valle delle bambole, film feuilleton ma di enorme richiamo che venne inserito, forse troppo crudelmente, tra i cinquanta film più brutti di sempre.
C’è stato di peggio.
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Tornata con delusione in Usa e riallacciatasi alla Fox, tra il ’67 e il ’69, interpretò film di non alta importanza per quanto interessanti alcuni – Fathom bella e intrepida spia; Il mio amico il diavolo; La signora nel cemento; L’implacabile omicida – dove la sua presenza era sempre complementare a quella degli interpreti maschili.
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Tra questi si segnala Bandolero (’68) di A. Victor McLaglen – il “figlio del Traditore” divenuto yes man o quasi di John Wayne – che dirige il suo film migliore in assoluto.
Qui Raquel Welch interpreta la vedova del possidente Jock Mahoney, ucciso nella rapina perpetrata dalla banda di sbandati sudisti guidati da Dean Martin che però è ostacolata, fin dall’inizio, dal fratello nordista James Stewart di lui e dallo sceriffo George Kennedy innamorato timidamente di lei.
In quest’opera, cosa rara in un western americano diretto da un regista tradizionalista, la figura di Maria, interpretata da Raquel, è vista ben diversamente dal solito.
Si rivela una poverissima messicana che il marito ha comprato dal padre quando si prostituiva nel Sinaloa.
Ricondotta in Messico con i fuorilegge, non esista a ricambiare in tenerezza il fascino melanconico di Dean Martin, assassino sfasato anch’egli per le circostanze della vita, con l’illusione di una vecchiaia in babbucce.
In un ruolo fortemente drammatico Raquel si batte con accanimento contro i disumani bandoleros che li assediano e si attacca all’uomo che ama con un accanimento sensuale accresciuto dall’atmosfera ribollente dei luoghi.
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Ma non sarebbe stato Bandolero a votarla a scelte più anticonformiste se, nel ’70, non avesse interpretato El Verdugo (100 Rifles) realizzato in Spagna e completato nel ’69 da Tom Gries il quasi cinquantenne regista che, dopo una carriera più che altro come produttore tv, s’era imposto, l’anno prima, con Costretto ad uccidere (Will Penny) uno dei miglior film western crepuscolari di sempre.
La vicenda doveva essere quella storica del massacro degli Yaqui, indiani non inseriti nella multirazziale società messicana, i quali, nei primi anni confusi della Rivoluzione furono vittime di un autentico genocidio nello stato di Sonora.
Il film si rivela un guazzabuglio dove buoni e cattivi non si collegano se non per la rapina di armi e munizioni compiuta da uno strano meticcio (Yanqui Joe Herrera in originale, interpretato da Burt Reynolds in una delle sue prime prove importanti) per questo perseguitato sia dal fanatico generale Fernando Lamas che intende massacrare gli indiani, sia da uno sceriffo americano, il divo di colore Jim Brown al suo primo film come protagonista dopo un’esperienza nella bloxpoitation dell’epoca).
Il film non sarebbe che uno dei grossi western americani al tempo girati in Spagna (anche tra i tanti piccoli se non minuscoli prodotti), privo di un autentico richiamo di pubblico di qui e di la dall’oceano, se non fosse per l’attrazione sessuale e poi la passione amorosa che nasce tra il gigantesco sceriffo (Jim Brown era alto quasi due metri e particolarmente robusto) e Raquel Welch, qui una messicana schierata con i rivoluzionari e gli yaqui per vendetta mai chiarita. Il generale gli ha ucciso e torturato il padre o l’ha violentata?
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Si scrisse allora che un “superdivo” di colore era amato finalmente da una “superdiva” bianca. E, in effetti, non è certo lui a farsi avanti per primo.
Questo centro della storia superò i confini degli incassi non incoraggianti, superò i confini dei continenti, e qualificò Raquel Welch come attrice disposta a parti imbarazzanti per il pubblico americano più perbenista ma più coraggiose per le minoranze etniche e gli spettatori europei.
Basti pensare che solo nel ’68 il primo bacio tra un bianco e una donna di colore (nella terza stagione della serie classica di Star Trek) era stato accolto con scandalo da mezza America ma preso ad esempio da Martin Luther King e i difensori dei diritti civili.
Inutile notare che solo in Italia questa novità esplosiva non fu minimante notata e non a causa dell’insuccesso poiché El Verdugo, film nel complesso spurio e poco accattivante, venne distribuito tra i film americani che arrivavano inevitabilissimi nelle sale nostrane.
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L’anno dopo Raquel cavalcò l’anticonvenzionalismo piazzandosi come interprete di Il caso Myra Breckinridge tratto dal romanzo scandaloso di Gore Vidal (uscito da noi nel ’68 edito da Bompiani e con ottime vendite nella successiva edizione economica) dov’era un uomo che si trasforma in donna in un contesto di vicendevoli incontri in cui si dibatte sia del cambio di sesso sia di omosessualità, sia del rapporto tra tanti altri temi scottanti e la vecchia Hollywood, in una chiave grottesca e caricaturale.
Al cast eterogeneo (tra i veterani furoreggiava un’ottantaseienne Mae West in abiti da burlesque ed aveva un posto di primo piano John Huston) fu in parte accreditato la cattiva riuscita del film che in Europa poté contare solo sul pubblico più represso e in Usa finì nel circuito dei film “probiti” sebbene Zanuck ritenesse che “…pur essendo riusciti tutti sconfitti da questo tentativo di fare qualcosa di cui gli americani non sono capaci, almeno ci abbiamo provato…”.
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La stessa Raquel Welch non fu contenta del risultato e, considerando che ne era il personaggio centrale, ha proclamato Il caso Myra Breckenridge il suo film più brutto.
In effetti, sebbene non sia visibile da tempo (e non la versione integrale che uscirà forse in Italia in dvd, mentre l’originale è divenuto, manco a dirlo, un oggetto di culto) il nostro giudizio non sarebbe diverso.
Resta però il fatto, importante nel quadro della società dell’epoca, che una pellicola così rompeva talmente tanti schemi e ne prendeva in giro altrettanti da far girare la testa anche a un regista di solido mestiere anziché il tuttofare inglese Michael Sarne – dedicatosi poi ai film erotici –
il quale poco conosceva della materia su cui era chiamato a dirigere.
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Resta il fatto che Raquel è più che mai convinta che, all’alba degli anni Settanta, il lancio e il sostentamento sulla cresta del box office di una diva non potesse basarsi sui metodi tradizionali ma cercando una contaminazione di generi, una originalità scavata nella maculata cinematografia europea.
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E’ quindi in queste intenzioni che nasce La Texana e i fratelli Penitenza (Hannie Caulder) prodotto dal un accordo tra il marito Patrick Curtis e il produttore Tony Tensor per una produzione britannica da girarsi in Spagna.
La trama ebbe inizialmente una certa rielaborazione. Inizialmente ideata da Ian Quicke e Bob Richards da un’idea di Peter Cooke fu poi scritta materialmente da David Haft. Ma, chiamato a dirigere Burt Kennedy, l’ultimo degli westerner della regia con un ottimo passato di sceneggiatore, quest’ultimo volle naturalmente intervenire.
Alla fine, per non creare altri dissidi, Haft e Kennedy si firmarono con lo pseudonimo unico Z.X.Jones.
L’influsso del regista americano è importante perché la sua visione del prodotto non si discosta dal soggetto ma tende a far crescere la componente estrosa e stravagante che s’intende dare al film senza rinunciare ad una rappresentazione realistica sebbene anche gli episodi più drammatici finiscano con il richiamare sottilmente il grottesco di cui non sempre lo spettatore è chiamato ad accorgersi.
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La Texana e i fratelli Penitenza (che in inglese si chiamano Clemens) è anche la dimostrazione che, in quegli anni, sotto la cornice dell’eurowestern si può fare di tutto. Dal peggio al meglio, come qui, ma sempre al di là della tradizione nordamericana.
Lo stesso Kennedy, nato nel ’22, ha scritto una serie di western che, dal ’56, hanno accompagnato il crepuscolo del genere, specialmente quelli con Randolph Scott diretti da Budd Boetticher, ma anche altri dove riutilizza dialoghi e battute, che in Usa sono rimasti nel circuito di serie b ma in Europa hanno richiamato l’attenzione della critica la quale, una volta tanto, ha accompagnato una diffusione nel profondo dei circuiti delle sale cinematografiche.
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Come regista non ha avuto modo di distinguersi particolarmente (sebbene il primo, I canadesi del ’61, con Robert Ryan, è un piccolo gioiello di gusto del paesaggio e dei rapporti umani all’insegna della tolleranza e dell’umana clemenza), ha accettato anche un film su misura per vecchi divi (Robert Taylor, Henry Fonda, Glenn Ford e John Wayne per il quale ne farà due), un poco significativo secondo episodio de I magnifici Sette.
Il suo film più bello, fino al ’68, è stranamente un noir – La trappola mortale – che ne rivela il talento pessimista e la capacità di utilizzare il genere per tracciarne il percorso verso la fine.
Ma, appunto nel ’68, è entrato in serie A raccogliendo un notevole successo con Il dito più veloce del west che si ripeterà con L’infallibile pistolero strabico (’71) western parodistici che ne realizzano il completamento come autore in un contesto dove il realismo si mescola con la parodia.
Da allora dirigerà ancora, prima di passare in televisione, senza quasi uscire dal genere, film più o meno significativi.
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E che cos’è Hannie Caulder se non una parodia dentro il dramma e il dramma vestito di parodia e ancora una stravaganza che nasconde tematiche serissime ?
La storia è appunto quella di Hannie a cui tre banditi fetidi e ributtanti (Ernest Borgnine, Jack Elam, Strother Martin, che non si preoccupano certo di rimanere simpatici) le uccidono il marito e le praticano violenza tra le più rivoltanti in una fattoria dispersa ai confini col Messico.
Dopo che i tre hanno lasciato il ranch incendiandolo, Hannie si veste con una specie di poncho, molto simile a quello di Clint Eastwood nei film di Leone, e s’intuisce che, per un bel pezzo di film, sotto non ha nulla se non una pistola con cinturone.
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Ecco, e forse ancor più famosa di quella preistorica, l’altra icona fondamentale di Raquel Welch da cui nasceranno richiami artistici, esultanze pubblicitarie, eredità culturali, imitazioni e persino personaggi del fumetto.
Chi non se la ricorda in quella mise che era poi il manifesto del film sebbene, per il mercato americano interno, ne fosse realizzato un altro dove lei è seduta a gambe aperte, ma coperte, sulla veranda di un saloon, insieme ai suoi tre mortali nemici in atteggiamento allegro e rassicurante.
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Ma, nella memoria, e’ il gioco, il gioco dentro il dolore della donna a cui hanno ucciso il marito e la quale hanno stuprato una decina di volte i fratelli Clemens; è mostrarci Hannie con le straordinarie gambe carnose e affusolate, i fianchi incantevoli, il viso sensualissimo, che lo strano cacciatore di taglie Robert Culp dice solo una volta di desiderare ma, in realtà si preoccupa di proteggere e soprattutto, dopo averla tentata di convincerla a desistere, a insegnarle a sparare per poter compiere la vendetta.
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In un film completamente realistico non sarebbe stato possibile immaginare una donna quasi nuda, e Raquel Welch mica una bellezza qualsiasi, che, in età vittoriana, si accoda ad un cacciatore di taglie presbite per raggiungere i suoi nemici che continuano a rapinare e uccidere senza nemmeno sapere di essere perseguitati da lei, in un west dove la pochissima legge presente non si manifesta che a tratti.
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E’ chiaro che Kennedy intende prendere in giro le caratteristiche salienti del western italo-iberico ma, dovendo portare a termine un’episodica fortemente tragica e sanguinosa, fa eseguire alla protagonista ma anche agli altri attori, una danza di morte estraniata, lontana dal divertimento puro che si risolve nei dialoghi petulanti dei fratelli Clemens che, da perfetti sottoproletari perduti del west (già visti, in ben altra chiave, sia in Sierra Charriba, Il mucchio selvaggio e La ballata di Cable Houge – dove i cattivi sono individuati addirittura come legati da un rapporto di servitù omosessuale – di Peckinpah) si schifano tra loro e non si sa bene quale sia la ragione autentica della loro deturpata e poco affidabile fratellanza.
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C’è anche un episodio centrale. La visita, sul mare (Playa de Granada com’era allora, ancora ai tempi del Franchismo e della Spagna come terzo mondo d’Europa ben poco invasa dai turisti) ad un armaiolo (Christopher Lee senza denti fatali, con barba paterna e un cappellone di paglia) che fabbrica una speciale arma per Hannie, compesata sulla stazza della donna.
Poi sia lei che Culp e Lee respingeranno un attacco di banditi con la stessa iperbolica velocità di movimenti che in un western statunitense non sarebbe stata accettabile ma appassiona, sia per la suggestione del paesaggio sospeso tra le colline western e il mare calmo, quasi fermo, i cui flutti accarezzano la riva solitaria.
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Infine la vendetta finale dove i fratelli dovranno soffrire le pene dell’inferno gravati dal fatto che Hannie ha perso lo strano compagno che mai la tocca ed è affiancata da un misterioso pistolero con un abito nero, da giocatore d’azzardo o da becchino o da finto prete, però impolverato e spiegazzato come vuole la tradizione dell’eurowestern, interpretato da Stephen Boyd (protagonista con Raquel Welch di Viaggio allucinante) che compare e scompare per pochi minuti dall’inizio alla fine del film, ma poi le si affianca accompagnandola nel finale verso non si da dove.
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Muoiono questi personaggi una volta esercitata la loro funzione come gli westerner del cinema classico ?
Probabilmente anch’essi, sovrastati dalla loro ferocia, devono dissolversi nella prateria polverosa da dove sono venuti.
Ma qui, in questo film, c’è un personaggio nuovo e fondamentale : Hannie Caulder, la quale forse potrà ancora trovare l’amore, un uomo, un figlio, un senso compiuto della vita.
Se no a cosa le sarebbe servito vendicarsi di chi l’ha trasportata in un vortice di violenza ?
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La domanda non è casuale ne conclusiva.
Hannie Caulder è una donna violentata, vittima della ferocia degli uomini, che agli uomini non deve nulla e non riesce a dare più nulla.
Mostra le cosce sotto il poncho Hannie Caulder ma non è solo un personaggio irreale, appartenente a quella fiaba crudele che allora riusciva ad essere ancora il western europeo.
E’ soprattutto una donna che ricerca la propria dignità, sconta la propria tribolazione e, a conti fatti, è una creatura moderna, più moderna dei tempi in cui il film fu girato, tanto moderna da finire in tempi che non sapremmo nemmeno se definire moderni o postmoderni come, a poco a poco, si stanno trasformando le storie di vittime “speciali” nel ventunesimo secolo.
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Sarà bene qui precisare che la venuta di Raquel Welch in Italia non s’è esaurita con le sue interpretazioni citate ne con la presenza della figlia Tanee Welch (1961, nata dal primo matrimonio) che da noi fece quattro film su diciotto negli anni Ottanta-Novanta.
L’armonica e sensibile attrice è venuta di nuovo, in immagine, nel west de noiartri con Raquel (’73) su testi di Paolo Trivellato, dichiaratamente ispirati ad Hannie Caulder , e disegni di Stelio Fenzo un disegnatore che ebbe la sua importanza grazie allo stile particolare, non dissimile dal primo Hugo Pratt, il quale realizzò il fumetto in coda all’ultimo volume di un altro western erotico : Walalla di Mario Gomboli e Ennio Missaglia.
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Raquel, successivamente stampato in volume, è divenuto una specie di pietra preziosa nel mondo non sempre dignitoso del fumetto erotico per bambini foruncoli e autori – sia dei testi che dei disegni – alla ricerca di un lavoro continuativo in una situazione spesso professionalmente pericolante.
Tranne in alcuni casi dove prevale la tavola intera, i disegni di Fenzo sono a due per facciata e non sempre godono di quelli sfondi, di quel panorama che arricchisce anche i contesti più ingenui.
Sono storie di violenza e di vendetta dove la protagonista, al contrario del personaggio del cinema, mostra abbondantemente le tette scoprendo quindi ben qualcosa di più.
Si succedono stupri, atti sessuali esageratamente desiderati o violentemente rifiutati, indiani massacrati e scalpati per avvincere il gusto sadico dei lettori tipici più che un politically correct che allora non esisteva.
Avventura semplicista e banalotta tanto da capire come mai Stelio Fenzo non sia convincente come in altre occasioni.
Al termine Raquel può togliersi anche il poncho per compiere con uno dei pochi personaggi buoni, Cliff, il rito sessuale che, in quelle storie, sostituiva il bacio finale.
Rimane però una documentazione di come Hannie Caulder (probabilmente chiamato La Texana e i fratelli Penitenza senza nemmeno troppo conoscere il film) influì sugli aspetti più bassi di un costume, quello del fumetto erotico, che pur toccò vette più alte.
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Dopo e prima di Hannie Caulder film al femminile nel quadro dell’eurowestern ne sono stati parecchi ma nessuno ha toccato gli aspetti che abbiamo raccontato, anche tra i migliori.
C’è chi scrive che Quentin Tarantino lo abbia copiato, soprattutto nelle scene d’azione, in Kill Bill (2003) ma non è vero. Lui cita. E a distanza di trentun anni perché non può essere vero.
Lo stesso Tarantino cita il rapporto tra Welch e Culp come ispirazione tra Sonny Chiba e Uma Thurman.
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In seguito Raquel Welch non mancò ad altri film fuori dal comune come Femmina violenta (’71); E tutto in biglietti di piccolo taglio (versione astraente e astrusa di un romanzo della serie dell’87°Distretto di Ed McBain, ‘72); Barbablù (’72); La bomba di Kansas City (’72); Party selvaggio (’75).
Nessuno di questi passerà alla storia delle migliori produzioni del cinema degli anni Settanta ma in ciascuno di questi c’è qualcosa per cui vale la pena rivederli, se non altro per verificare.
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Sempre nel suo decennio magico fu assoldata da un’altra produzione inglese (con fondi americani) dove le più celebri avventure di Dumas furono collocate nel grottesco e il suo ruolo, premiato con un Golden Globe, era quello di Costanza, la verginea innamorata di D’Artagnan che qui esibisce spaziose scollature.
Questo I tre moschettieri (’73) del divertito Richard Lester non ebbe da noi un grande successo. Forse nella nostra cultura popolare i personaggi del maestro del romanzo d’avventura eravamo abituati a prenderli sul serio, collocati a loro modo nella storia di una Francia dove anche la cattiveria di Richelieu possedeva una diversa rifinitura.
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Ma, nel mondo anglosassone, il riscontro fu formidabile.
Così Raquel si trovò Costanza in un altro film – Milady (’74; seguito del precedente) – e infine Il principe e il povero (’77; di Richard Fleisher) che applicava la stessa ricetta consolidando l’affermazione in Usa e nel Regno Unito.
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Però, dopo L’animale (’77; escursione in Francia con Belmondo che non si lascia rubare la scena), le quotazioni cominciano a calare.
Ha trentasette anni e voglia di tranquillità. Nel ’73 aveva lasciato Patrick Curtis, il più coerente dei suoi mariti, per poi sposarsi altre due volte e alte due volte divorziare sino a decidere di non unirsi più ufficialmente con i nuovi compagni.
Nel periodo che va dal ’78 al ’94 non recita in alcun film.
Dall’ 82 al 2015 recita in teatro e miete premi, doppia personaggi di cartoni animati, fa la guest star in molte serie, torna al cinema ma rimane in televisione.
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Non è difficile capire che il suo mondo è finito con gli anni Settanta.
Dopo di che, come molte altre e molti altri della sua generazione, quelli che avevano assaporato il periodo più libero del cinema classico (che tanti credevano l’inizio e invece fu la fine di ottant’anni che mai più si ripeteranno) ha vissuto della sua gloria, dei suoi successi passati, della sua bellezza e sensualità che ad un certo punto sono sfioriti e hanno richiesto (?) un lifting sempre eccessivo per una bellezza come la sua.
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Ma il ricordo degli spettatori rimane legato alla giovinezza di un’attrice che, di quella libertà, ha saputo usare il meglio che ha potuto attraverso se stessa : non solo corpo ma anche vera donna-attrice. Non solo attrice ma anche dignità e rispetto di se stessa.